mercoledì 26 marzo 2014

Le ferite dell'anima

Il trauma psicologico ha profondi effetti sulla mente, sul corpo e sulle relazioni interpersonali.  Addentrandosi all’interno del mondo della psicotraumatologia e confrontandosi con il trauma psicologico, si ha la sensazione di guardare in uno specchio infranto, dove tutto appare frammentato ed è fastidioso da guardare, dove si perdono i confini del vissuto e della memoria, aprendo ad un nuovo e strano mondo, fatto di sconvolgenti stratificazioni di dolore.
Esiste un grado di soggettività riguardo le ferite dell’anima. Infatti queste non sono tutte uguali e tantomeno uguali per tutti. Un qualsivoglia evento, seppure apparentemente elaborato a livello cognitivo, può essere "indigeribile" dal punto di vista emotivo, fino ad avere ripercussioni nell’ambito delle relazioni interpersonali, continuando ad "agire" il suo effetto "traumatizzante", attraverso i ricordi. Questo effetto potrebbe rivelarsi "disturbante" nel vissuto di una persona, mentre potrebbe essere "innocuo" su altre persone.
Di fronte ad un evento traumatico, la risposta della persona comprende  paura intensa, il "sentirsi inerme", o addirittura la sensazione di "orrore". L’elemento di percepita impotenza appare di cruciale importanza nella definizione di trauma. In questo senso, il trauma è definito come un evento emotivamente non sostenibile per chi lo subisce  o meglio, come lo definisce  Herman (1992)  "il trauma psichico è il dolore degli impotenti. Nel momento del trauma, la vittima è resa inerme da una forza soverchiante".
Queste "ferite dell’anima" sono esperienze il cui impatto emotivo risulta essere intenso e negativo, producendo nel nostro cervello vere e proprie cicatrici biologiche che condizionano i nostri atteggiamenti, le nostre emozioni, la nostra personalità, e le nostre capacità relazionali. Queste cicatrici rappresentano (a livello di reti neurali) il ricordo di quello che è successo. Come afferma van der Kolk B. (1994), "il problema non è quello che è successo, ma il ricordo di quello che è successo".
È dunque il ricordo dell’evento che diventa ad un certo punto il reale problema? I ricordi, di qualsiasi natura essi sono,  non corrispondono mai, nella mente, a contenuti fissi o tracce fisiche oggettive. Essendo i ricordi delle "azioni", l’attività del "ricordare" rappresenta sempre un costruire attivamente. Le cicatrici degli avvenimenti più dolorosi non scompaiono facilmente dal cervello, mostrandone le conseguenze sintomatologiche anche a distanza di decenni. Questo accade perché le memorie traumatiche fin dall’inizio non si integrano nella sintesi personale attraverso la funzione di realtà.  I ricordi possono essere frammentati, non accessibili, parzialmente accessibili o accompagnati da forti emozioni.
In definitiva possiamo dire che, grazie alle moderne tecniche di neuroimaging, l’emotività legata ai cosiddetti "ricordi vivi", ovvero quelli che, per intenderci, "fanno ancora male", risiede principalmente nell’emisfero destro. Ed è questo il luogo dove il ricordo traumatico resta "bloccato" e "frammentato". Attraverso questo meccanismo è come se ci trascinassimo dietro le emozioni legate a quel ricordo, che rimangono, per così dire, "aggrappate al passato" anche quando acquisiamo una visione razionale del trauma subito, fornendoci l’impressione che il trauma costituisca una sorte di "blocco nella memoria", che impedisce l’integrazione degli eventi traumatici nella coscienza e nell’identità.  L’esperienza traumatica in sè, crea le condizioni affinchè si verifichi un difetto di registrazione dell’evento all’interno della memoria, creando di conseguenza una sorta di "corto circuito" del flusso abituale della coscienza.
Le memorie traumatiche non si trovano sotto forma di ricordi accessibili verbalmente, infatti dalle evidenze delle immagini elaborate dalla tomografia mostravano una "disattivazione" (una specie di anestesia) dell'area di Broca, che è quella parte del cervello responsabile dell'espressione del linguaggio. Infatti la tipica espressione che si utilizza nel rievocare l’esperienza traumatica è:  "Non trovo le parole per descrivere quello che ho vissuto". Questo perché le memorie legate agli eventi traumatici, molto spesso, vengono immagazzinate in una zona del cervello dove non possono essere recuperati, se non sotto forma di sensazioni vivide e di immagini.
Nella terapia dei traumi l’integrazione diventa quindi qualcosa di molto diverso dalla interpretazione, dalla intellettualizzazione, dalla ricostruzione storico-narrativa di una esistenza, dalla correzione  di convinzioni disfunzionali. Ma vediamo come trattare i traumi. In un primo momento, dopo aver subito lo stress, il soggetto ha bisogno di un "luogo sicuro", ovvero di un "contenimento". In un secondo momento le tecniche terapeutiche che possono essere utilizzate sono diverse e dipendono dai modelli di riferimento del terapeuta.

Dott.ssa Stefania Alfano,Psicologa-Psicoterapeuta
Dott. Roberto Di Polito,Psicologo-Psicoterapeuta 
(versione integrale dell'articolo su

sabato 15 marzo 2014

Disturbi del comportamento alimentare
Con il termine disturbi alimentari (DCA) si fa globalmente riferimento ad un disagio caratterizzato da un alterato rapporto con il cibo e con il proprio corpo. Accanto all’alterazione del comportamento alimentare è presente, infatti, un’alterata valutazione delle proprie forme corporee, con la sensazione di essere grassi o brutti o “sproporzionati” e, quindi, socialmente non accettabili. Sono spesso sotto-diagnosticati o diagnosticati tardivamente rispetto all’esordio dei sintomi, in quanto tipicamente gli individui affetti non cercano trattamento psicologico specifico .

Le cause dei disturbi alimentari possono essere di vario genere ed entità ed il cibo diventa l’anestetico che permette di non sentire la sofferenza, un’auto-cura per non pensare. In questo modo, però, il dolore permane e la vita non viene vissuta a pieno. I disturbi alimentari sottendono, infatti, disagi psicologici profondi e sono un modo per comunicare sofferenze e paure. Essi consentono di trovare una forma mentale di rifugio e di protezione che non si saprebbe trovare altrove, in un dato momento della propria esistenza: paradossalmente, offrono un senso di sicurezza e di controllo totale del mondo di vissuti di sofferenza sottostante.

Secondo il più utilizzato manuale diagnostico (DSM-IV-RT), i Disturbi del Comportamento Alimentare comprendono l’Anoressia Nervosa, la Bulimia Nervosa e i Disturbi Alimentari Non Altrimenti Specificati (DCA-NAS), ovvero un gruppo di patologie, la cui incidenza annuale è in aumento esponenziale ed in cui rientrano tutti quei casi di rapporto disturbato con l’alimentazione o con il proprio corpo, che non soddisfano i criteri diagnostici per le precedenti categorie: ne sono un esempio l’iperfagia emotiva, la tendenza alla restrizione alimentare con normale BMI corporeo, il sovrappeso per eccessiva alimentazione, la presenza di sporadiche abbuffate alimentari senza puntuali condotte compensatorie come il vomito autoindotto, la precisione nel “mangiar sano”, con eccessiva attenzione all’alimentazione (Ortoressia), la Fitness-dipendenza (Vigoressia), una dieta vegetariana stretta (Vegani), la preoccupazione, più frequente nei maschi, di avere una certa massa muscolare (Sarcoressia), etc.
E’ prevista la prossima inclusione nei manuali diagnostici di disturbi alimentari aggiuntivi in qualità di categorie primarie: il Disturbo da Abbuffate Compulsive o Binge Eating Disorder (BED), con due sottogruppi diagnostici, ovvero la Sindrome da Alimentazione Notturna o Night Eating Sindrome (NES) e l’Obesità con Componenti Psicologiche o Comportamentali.

La RIABILITAZIONE NUTRIZIONALE è necessaria per tutti i pazienti.

Solitamente il raggiungimento del peso ottimale non è l’obiettivo primario. Il counselling nutrizionale è importante per abituare il paziente a consumare pasti regolari e a non abbuffarsi, aumentare la varietà dei cibi, correggere le carenze nutrizionali, ridurre al minimo le restrizioni dietetiche, incoraggiare lo svolgimento di attività fisica salutare, ma non eccessiva. La prescrizione di diete può essere controproducente, se non dannosa. I regimi dietetici rigidi con alimenti pesati rafforzano il controllo sul cibo-calorie-corpo dei pazienti, favorendo l’esordio o la cronicizzazione del disturbo. Il nutrizionista introduce principi di alimentazione sana, mette al corrente il paziente dei rischi sulla salute causati dagli squilibri nutrizionali e contiene gli inevitabili fallimenti dietetici dei pazienti, incoraggiandoli al cambiamento e invitandoli ad una comprensione più profonda dei loro problemi col cibo.

Dott.ssa Guerrera Mariacarmela
Biologa Nutrizionista

venerdì 14 marzo 2014

Giornata per la sensibilizzazione e la prevenzione dei D.C.A.

15 Marzo 2014