domenica 29 novembre 2015

Lo sviluppo del linguaggio.

Il linguaggio permette almeno due importanti funzioni: quella comunicativa grazie alla quale siamo in grado di trasmettere idee e conoscenze, e quella simbolica e di astrazione. La capacità di astrarre e di utilizzare simboli, è talmente importante per lo sviluppo e l’impiego del nostro pensiero, che il rapporto tra linguaggio e pensiero è stato un tema molto discusso in psicologia. Anche per il linguaggio, ci sono varie teorie a sostegno della sua nascita ed evoluzione.

I bambini, fin dalla nascita sono predisposti ad apprendere il linguaggio, e sembrano attribuire, sin dal momento in cui vengono alla luce, un valore speciale ai suoni del linguaggio. La fase di apprendimento inizia a tre mesi, con la semplice percezione dei suoni e il riconoscimento della provenienza, arrivando, poi, ad acquisire la grammatica di base intorno ai 5 anni di età. Tutto ciò è agevolato dalla rapida evoluzione dell’emisfero cerebrale sinistro, a partire dalla 35° settimana di vita, deputato all’elaborazione del linguaggio. Neonati di 3 giorni, mostrano di preferire il linguaggio a qualsiasi altro suono. A 6 mesi, i bambini riescono a cogliere le differenze tra due suoni diversi, in una qualunque delle lingue parlate al mondo; dopo i 6 mesi sono in grado di discriminare tra i suoni che appartengono alla loro lingua madre ed un’altra lingua.

Intorno ai 2 mesi incomincia a produrre una nuova categoria di suoni più simile al linguaggio, il “cooing”, che consiste in una serie di vocali ripetute. Tra i 4 e i 6 mesi al cooing subentra la lallazione ovvero la “ripetizione di sillabe uguali, con ritmo respiratorio uguale a quello del linguaggio articolato, senza contenuto designativo specifico, senza alcuna finalità cosciente" (Stern).  E successivamente il balbettio, cioè la ripetizione di consonanti e vocali abbinate. A 8 mesi il balbettio comincia ad essere composto da suoni che imitano nel ritmo e nel tono, la lingua che i bambini sentono intorno a sé. Intorno ai 10 mesi, i balbettii non sono più così casuali, ma sono legati a contesti specifici. Questi suoni precursori delle parole sono definiti come “vocaboli contestuali”, per distinguerli dalle vere parole che hanno funzione simbolica.

Durante il primo anno di vita prendono forma nel bambino i primi mezzi di comunicazione, caratterizzati, in questa fase, da tentativi di imitazione di suoni proposti dall’adulto. Proprio nell’ecolalia (ripetizione di suoni), secondo Piaget, sarebbe da ricercare la principale forma di acquisizione del linguaggio. Queste melodie ritmiche diverse, sono utilizzate per indicare intenzioni, e desideri differenti.

Tra il primo e il secondo anno di vita, il bambino affina le proprie capacità, e inizia a produrre le prime espressioni che possano anche essere costituite da una sola parola. Queste espressioni vengono indicate con il termine di “olofrasi”.
Successivamente il bambino comincia a legare insieme due, tre, quattro parole per formare frasi. In questa fase, le frasi non sono né corrette né complete, il linguaggio del bambino, in questa fase, viene definito “linguaggio telegrafico”. Dai 2 ai 3 anni i bambini possiedono 300 vocaboli. È questo il periodo dei perchè. Il bambino assimila le forme sintattiche e grammaticali attraverso una continua richiesta di rispondere a specifiche domande, questo, serve anche per arricchire il suo lessico e il suo vocabolario. Da questa età in poi, il bambino continua ad arricchire il suo vocabolario e a perfezionare le sue conoscenze grammaticali, fino a che intorno ai 5 anni diviene padrone di strutture assai simili a quelle di adulti e controlla un vocabolario di circa duemila parole.

Con l'ingresso nella scuola primaria si incrementano le funzioni interattive del bambino, si perfezionano le modalità con cui si scambiano le informazioni e si formulano le domande. Occorre sottolineare che ogni bambino ha i suoi tempi, e che cause ambientali e genetiche possono rallentare lo sviluppo del linguaggio. E' importante che gli adulti, per favorire una maggior competenza linguistica da parte del bambino, prestino ascolto  al bambino quando si rivolge a noi; instaurare una conversazione con il bambino; incoraggiare e rinforzare i tentativi del bambino di dire nuove parole; lasciare che il bambino ci racconti o inventi storie per noilodare il bambino quando parla dei suoi sentimenti, dei suoi pensieri o delle sue paure; raccontare delle filastrocche o cantare delle canzoni insieme con il bambino; leggere al bambino lunghe storie. 

giovedì 19 novembre 2015

QUESTIONI DI BIOETICA: IL CONSENSO INFORMATO E LO STATO VEGETATIVO C.D. PERSISTENTE

Negli ultimi anni, anche a seguito di drammatiche vicende di cronaca, come il caso Welby o il più recente caso Nuvoli, si è posto sempre in maniera più frequente il problema delle questioni di fine vita ed in particolare della possibilità di sospendere la nutrizione ed idratazione artificiali nei soggetti in stato di irreversibile perdita di coscienza.
La questione si pone affrontando un duplice quesito:
1) se la nutrizione ed idratazione artificiale debba considerarsi terapia o sostentamento vitale;
2) nella possibilità di introdurre nel nostro sistema il c.d. testamento biologico, in termini giuridici dichiarazione anticipata di trattamento, attraverso il quale il paziente esprime in un momento di lucidità mentale il suo consenso informato in maniera anticipata rispetto all’insorgere di una probabile malattia, negando o prestando il proprio consenso al trattamento sanitario.

Entrambi i quesiti pongono il loro fondamento sulla validità del c.d. consenso informato. Questo non è altro che una manifestazione di volontà del paziente, sorretta da una esaustiva informazione circa il trattamento terapeutico da farsi somministrare, attraverso la quale il soggetto sceglie di sottoporsi o di sottrarsi al trattamento consigliato. In mancanza dell’acquisizione del consenso, l’attività del medico risulta illegittima; così come un consenso presente ma invalido  porta alla illegittimità dell’attività del medico.
Tra i requisiti di validità del consenso informato, quello che interessa alle questioni di fine vita è quello del carattere ATTUALE E PERSISTENTE, in base al quale il consenso deve presiedere tutte le fasi del trattamento sanitario. Esso deve infatti essere prestato prima della sottoposizione al trattamento, ma deve tuttavia permanere per tutta la sua durata: si tratta infatti di un atto revocabile in ogni momento dal paziente.
Se, dunque, sorgono dei dubbi sull’applicazione di tale istituto nel caso di testamento biologico, ove per definizione la manifestazione di volontà viene anticipata all’insorgere di una probabile malattia degenerativa, nulla quaestio nel caso in cui un paziente in condizioni di lucidità mentale e una volta acquisite tutte le informazioni  del caso, scelga di non sottoporsi ad un trattamento sanitario. Il problema però sorge, anche in questo secondo caso, quando il paziente venga sottoposto  alla nutrizione o l’idratazione artificiale perché in tal caso si incontrano delle difficoltà nell’inquadrare giuridicamente tale attività.
Analizzando il caso appena esposto, nell’ipotesi in cui la nutrizione artificiale venisse considerata come terapia, la sospensione dell’alimentazione e della idratazione (detta anche accanimento terapeutico), troverebbe la tutela giuridica nell’art. 32 Cost., oltre che nel Codice di deontologia medica, dopo aver accertato in concreto la volontà espressa. Viceversa, qualora si attribuisse alla nutrizione artificiale il valore di sostentamento vitale, la sospensione rientrerebbe in una forma di eutanasia, in quanto il paziente non morirebbe a causa della sospensione della cura rifiutata dallo stesso paziente, ma per l’omissione di una forma di sostegno.

A livello internazionale, dal punto di vista medico e bioetico, l’orientamento prevalente è quello di considerare la sospensione della nutrizione ed idratazione artificiale come sospensione di una terapia, dunque come un trattamento medico liberamente rifiutabile, mentre in Italia il Comitato nazionale di bioetica si è espresso nel 2005 in senso contrario.  I contrastanti orientamenti hanno fatto sì che anche in Parlamento si aprisse un dibattito sulla vicenda in esame. A tal proposito preme indicare la proposta di legge sulle “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica di consenso informato e di dichiarazione anticipata di trattamento (DAT)”, i cui lavori sono fermi dal 2011 in Senato per la seconda lettura. Riportiamo quanto descritto nel corso dei lavori alle Camere: “ll progetto di legge sancisce preliminarmente i principi della tutela della vita umana e della dignità della persona, del divieto dell’eutanasia e dell’accanimento terapeutico, e del consenso informato quale presupposto di ogni trattamento sanitario. Provvede quindi alla disciplina, con una norma di carattere generale, del consenso informato, sempre revocabile e preceduto da una corretta informazione medica, e delinea le caratteristiche e i principi essenziali della dichiarazione anticipata di trattamento. Tale dichiarazione consiste nella manifestazione di volontà con cui il dichiarante si esprime, con determinate formalità, in merito ai trattamenti sanitari in previsione di un'eventuale futura perdita della propria capacità di intendere e di volere. Essa, tuttavia, non può riguardare l’alimentazione e l'idratazione, che devono essere mantenute fino al termine della vita, salvo che non abbiano più alcuna efficacia nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo.” La proposta di legge mira, dunque, a vietare quella che viene definita eutanasia, avallando l’ipotesi di chi attribuisce alla nutrizione artificiale il valore di sostentamento vitale.

Avv. Tiziana Alfano

martedì 17 novembre 2015

Cioccolato: conosciamolo meglio !

La convinzione di molti è che durante una dieta bisogna rinunciare completamente a dolci, pizza e cioccolato! Niente di più falso! Qualsiasi alimento può essere assunto nelle giuste proporzioni, anche quando si segue un regime dietetico.
In particolare, non è assolutamente da escludere dalla propria alimentazione il cioccolato, soprattutto se fondente, perchè ricco di qualità nutrizionali da non sottovalutare.
Il cioccolato fondente è considerato l’antidepressivo non farmacologico per eccellenza.
Grazie ad un mix di sostanze presenti nel cacao, il cioccolato fondente è in grado di agire sul nostro stato umorale, contiene un insieme di sostanze che incide sostanzialmente sull’equilibrio chimico del cervello.

A tal proposito vengono stimolati diversi neurotrasmettitori come la serotonina, che svolge un’azione importante nella regolazione del sonno, dell’umore, della temperatura corporea nonché dell’appetito; la feniletilamina è anch’essa un neurotrasmettitore che riproduce quello stato di benessere che proviamo quando siamo innamorati, forse il miglior rimedio contro la depressione; le metilxantine (caffeina, teobromina e teofillina) possiedono proprietà stimolanti che sollevano l’umore e aumentano la capacità di concentrazione;
l’anandamide, un acido grasso già presente nel corpo umano, in grado di stimolare le percezioni sensoriali e provoca una sensazione di benessere e felicità.
Infine, tra le proprietà benefiche del cioccolato c’è quella di stimolare il cervello a produrre endorfine che innalzano il livello dell’umore e diminuiscono quello del dolore, producono una generale sensazione di benessere e di felicità, stimolano il rilascio degli ormoni sessuali.
Il cioccolato fondente è ricco di antiossidanti; è anche l’alleato migliore del cuore e dell’attività vascolare, grazie alla presenza di flavonoidi, potenti antiossidanti che svolgono un ruolo fondamentale contro le malattie cardiovascolari, contrastano l’indurimento delle arterie e dei capillari, inoltre contribuiscono a contrastare le infiammazioni e la formazione di neoplasie. In più agisce anche sulla pressione sanguigna, grazie alla presenza massiccia di polifenoli, altra categoria di potenti antiossidanti; il cacao contrasta l’ipertensione, abbassando soprattutto i valori massimi, preservando l’uomo dalle malattie cardiovascolari.

Il cioccolato fondente non contiene colesterolo, essendo ricco di antiossidanti, assunto quotidianamente nelle giuste quantità (senza esagerare), è in grado di abbassare il colesterolo cattivo (LDL) e alzare quello buono (HDL). Tutti questi benefici riguardano solo il cioccolato fondente in quanto il cioccolato al latte è più calorico di quello fondente, inoltre ha anche più grassi (tra i quali una piccola parte di colesterolo). Rispetto al fondente ha poi una minore quantità di flavonoidi ossia gli antiossidanti in grado di neutralizzare i radicali liberi in eccesso nell’organismo. Inoltre, proprio l’aggiunta del latte al cioccolato riduce l’assorbimento delle sostanze antiossidanti del cacao. E’ per questo motivo che si consiglia soprattutto il cioccolato nero. Va detto però che il cioccolato al latte, come il fondente, contiene fosforo, vitamine, e soprattutto, ha il vantaggio di apportare più calcio che arriva a 262 mg per 100g in confronto ai 51 mg per 100g del fondente.
Per quest’ultima proprietà è spesso indicato, senza eccedere nelle quantità, nelle merende dei bambini. L'unico lato negativo di questo alimento: crea dipendenza!!!


Dott.ssa Guerrera Mariacarmela
Biologa Nutrizionista

IL MOBBING



“Il Mobbing è una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Il mobbizzato si trova nell'impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell'umore che possono portare anche a invalidità psicofisica permanente” (H. Ege, La valutazione peritale del Danno da Mobbing, Giuffré Milano 2002).

Il termine mobbing identifica un insieme di comportamenti violenti, sia di natura fisica che verbale, messi in atto da persona e/o un gruppo di persone, verso altri soggetti.
La vittima di queste vere e proprie persecuzioni si sente emarginata, calunniata, criticata: gli vengono affidati compiti dequalificanti, o viene spostata da un ufficio all'altro, o viene sistematicamente messa in ridicolo di fronte a clienti o superiori. Lo scopo di tali comportamenti può essere vario, ma sempre distruttivo: eliminare una persona divenuta in qualche modo “scomoda”, inducendola alle dimissioni volontarie o provocandone il licenziamento. 

Il termine venne coniato agli inizi degli anni settanta del XX secolo dall'etologo Konrad Lorenz, per descrivere un particolare comportamento aggressivo tra individui della stessa specie, con l'obbiettivo di escludere un membro del gruppo. Negli anni ’80 lo psicologo svedese Heinz Leymann, definì il mobbing: “un terrore psicologico che consiste in una comunicazione ostile e contraria ai principi etici, perpetrata in modo sistematico da una o più persone principalmente contro un singolo individuo che viene per questo spinto in una posizione di impotenza e impossibilità di difesa, e qui costretto a restare da continue attività ostili”. In Italia, si inizia a parlare di mobbing  intorno gli anni '90, lo psicologo del lavoro Haraid Ege descrive il fenomeno attraverso un modello a 6 fasi e definendo il mobbing come "una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro, esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte dei colleghi o superiori" attuati in modo ripetitivo e protratti nel tempo per un periodo di almeno sei mesi. Perché sussista il mobbing, non è sufficiente un singolo atto, ma è necessaria una pluralità di situazioni.

Subire violenza interpersonale ha un forte potenziale traumatico, che ampliando le preesistenti fragilità della vittima del mobbing, mina il suo assetto cognitivo-emotivo. I lavoratori vittime di mobbing mostrano alterazioni dell’equilibrio socio-emotivo (ansia, depressione, ossessioni, attacchi di panico, anestesia emozionale), alterazioni dell’equilibrio psicofisiologico (cefalea, vertigini, disturbi gastrointestinali, disturbi del sonno e della sessualità) disturbi a livello comportamentale (modificazioni del comportamento alimentare, reazioni autoaggressive ed eteroaggressive, passività), problemi cardiaci ( infarto miocardico, battito cardiaco accelerato), problemi al sistema immunitario (calo delle difese immunitarie), problemi dermatologici (dermatiti  psoriasi disturbi cutanei).
Le conseguenze del mobbing producono difficoltà di adattamento del soggetto alla situazione lavorativa, e una drastica riduzione dell’autostima, e la sensazione di incapacità nel gestire la realtà quotidiana. La vita della vittima di mobbing, nei casi più gravi, si trova così ad essere compromessa, con separazioni, divorzi e un progressivo ritiro anche dalla sfera sociale.
L’impatto di questo tipo di trauma sconvolge il proprio senso dell’identità. Si sviluppa un senso d’identità basato su percezioni di sé come impotente, colpevole, non amabile e non capace; si percepisce gli altri come pericolosi, inaffidabili, imprevedibili e, in generale si percepisce il mondo come ingiusto, caotico, ingestibile. Le aree del senso d’identità destabilizzate dall’evento, riguardano il sentirsi al sicuro, la fiducia in se stessi e negli altri, il sentirsi capaci di far fronte alle situazioni, la stima di sé, e l’intimità. 

“Qualsiasi interruzione del proprio senso di continuità e unicità connesso alla percezione di sé si accompagna invariabilmente alla perdita del senso della realtà e rappresenta l’esperienza emotiva più disgregante e devastante che un essere umano possa provare nel corso della vita”, come sottolinea Vittorio Guidano in "La complessità del Sé".

Per contrastare questo fenomeno in continua crescita, in Italia come in Europa, occorre una prevenzione a più livelli e un costante monitoraggio, in modo da prendere in tempo situazioni che potrebbero danneggiare la persona e anche l’azienda. Per affrontare il mobbing è necessario rivolgersi a professionisti in grado di gestire in modo multidisciplinare tutti gli aspetti legati a tale fenomeno: psicologici, medici, legali.

Dr.ssa Stefania Alfano
Psicologa Psicoterapeuta

domenica 8 novembre 2015

Il grounding: avere i piedi per terra.

Il radicamento o grounding, letteralmente significa avere i piedi ben piantati per terra. 
Il grounding fu ideato, negli anni Sessanta, da Alexander Lowen, psicanalista americano, ideatore della Analisi Bioenergetica, e viene usato per indicare il radicamento alla terra, al proprio corpo, alla propria vita e alla realtà in cui si vive. 
Lowen affermava: "Noi esseri umani siamo come gli alberi, radicati al suolo con un'estremità, protesi verso il cielo con l'altra, e tanto più possiamo protenderci quanto più forti sono le nostre radici terrene. Se sradichiamo un albero, le foglie muoiono; se sradichiamo una persona, la sua spiritualità diventa un'astrazione senza vita".
Lowen ci pone un importante quesito: riusciamo a restare radicalmente in contatto con noi stessi? I diversi stati che riguardano i livelli più alti del corpo se portati all'eccesso, possono sradicarci dalla nostra posizione e farci disorientare.

Il radicamento o grounding vuol dire sentirsi radicati nella propria autenticità e verità, accettando se stessi e i propri vissuti. Il "grounding" implica che una persona si "lasci scendere", che abbassi il suo centro di gravità, che si senta più vicina alla terra. Il risultato più immediato è di aumentare il senso di sicurezza. La persona sente la terra sotto di sé e i piedi che vi poggiano sopra. 

Sviluppando il grounding, si diventa più consapevoli, più capaci di esprimersi e si ha più padronanza di sé; quando si ha una propria "posizione", sappiamo dove siamo e chi siamo. Quando ha i piedi per terra, una persona ha la sua posizione, cioè, è "qualcuno". Il grounding, rappresenta il nostro contatto con le realtà di base, vuol dire essere in contatto con la realtà, fisicamente ed emotivamente: entrare in relazione con le sensazioni del corpo e con l'ambiente. In altre parole, si tratta di essere presenti nel qui e ora, con i piedi ben piantati per terra, in contatto con l’ambiente e in contatto con il proprio corpo, con le proprie sensazioni ed emozioni, con la percezione del proprio Sé. Queste qualità mancano nella persona che vive "tra le nuvole" o tutta nella testa, anziché nei piedi.
Praticando il "grounding" si stimola il più profondo sentimento di esistere, di auto-fiducia, di contare su Se stessi, favorendo un modo per relazionarsi all'altro senza paura di perdersi e di lasciarsi
andare.


Fonte: Alexander Lowen - Leslie Lowen
Dr.ssa Stefania Alfano
Psicologa Psicoterapeuta

giovedì 22 ottobre 2015

IL REATO DI “STALKING”: INDAGINE STATISTICA ED APPLICAZIONE DELLA NORMA.

La fattispecie di “atti persecutori” è stata introdotta nel nostro sistema penale solo in tempi relativamente recenti, ad opera dell’art. 7 D.L. 23 febbraio 2009, n. 11  che ha introdotto all’interno del libro secondo, titolo dodicesimo rubricato “Dei delitti contro la persona”, l’art. 612 bis, che punisce con la reclusione da sei mesi a cinque anni il fatto di chi “con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”.
Nel linguaggio comune, ma anche in quello degli addetti ai lavori, il delitto viene più spesso  chiamato “stalking”, termine che deriva dal verbo inglese to stalk, che appartiene al linguaggio tecnico della caccia e che letteralmente significa “fare la posta”, “avvicinarsi di soppiatto alla preda”. Nel linguaggio comune, esso è usato nel senso di “perseguitare”, “seguire”, “pedinare”, “braccare”, “molestare”, “disturbare”, “assillare”, “ricercare” o “fare qualcosa di nascosto”. In Italia il comportamento che integra la fattispecie ha assunto i caratteri della molestia e persecuzione. Generalmente, in linee di massima, si configura il reato di stalking ogni qual volta l’autore ricerchi in maniera persistente e ostinata di contattare la vittima, la quale invece reputi tali contatti come indesiderati, e tale ricerca  si esplica in una serie di  condotte intrusive, moleste, minacciose o violente, tali da suscitare nella vittima disagio, fastidio, angoscia, paura e preoccupazione. L’attività persecutoria si caratterizza per la reiterazione dei comportamenti intrusivi e assillanti, e per essere tali comportamenti indesiderati; dunque la relazione instauratasi è sostanzialmente unilaterale, voluta dal solo molestatore.

Attualmente, purtroppo, i reati di stalking sono sempre più frequenti e, da quanto appreso dalla quotidiana cronaca nera, spesso sfociano nella commissione di reati più gravi, quali l’omicidio della vittima. Visto il tragico epilogo con cui si conclude la vicenda, si dubita sulla efficacia degli strumenti giuridici forniti che dovrebbero impedire o scoraggiare lo stalker nel commettere ulteriori e più gravi reati. Stando ai dati forniti dalla Direzione Generale di Statistica pubblicata dal Ministero della Giustizia nel giugno 2014, “il 91,1% dei delitti di atti persecutori è commesso da maschi”, “in poco meno di un quinto dei casi analizzati la nazionalità dei soggetti coinvolti è straniera”, e “quasi un terzo degli autori è disoccupato o con lavoro saltuario”. Tale studio ha preso in esame la documentazione relativa ai procedimenti definiti presso i tribunali italiani negli anni 2011-2012, interessando 14 sedi di tribunale maggiormente rappresentative della realtà nazionale per dimensione e luogo. Dalla lettura delle sentenze risulta che per il 50,6% del campione il movente è quello del dichiarato tentativo di “ricomporre il rapporto”. Seguono la gelosia e l’ossessione. Nella maggior parte dei casi (73,9%) autore e vittima hanno avuto nel corso della loro vita una relazione sentimentale, solo 5 volte su 100 non hanno avuto alcun rapporto pregresso.

Veniamo ora all’identificazione del reato secondo il codice penale. Secondo l’art. 612-bis c.p. integra gli estremi del reato di atti persecutori la reiterazione della condotta criminosa, rappresentata da minacce e/o molestie. Secondo l’ormai consolidata interpretazione dottrinale e giurisprudenziale, per minaccia si intende la prospettazione di un male futuro e prossimo; per molestia, ogni attività che alteri dolorosamente o fastidiosamente l’equilibrio psico-fisico normale di un individuo. La condotta criminosa può realizzarsi secondo una molteplicità di forme idonee a produrre angoscia e paura nella vittima. A titolo esemplificativo, commette il reato di stalking chi segue ossessivamente sul luogo del lavoro la ex coniuge, ingerendo il lei un perdurante stato di ansia, costringendola a modificare le proprie abitudini di vita (vedi: Trib. Milano, 31 marzo 2009); chi rivolge apprezzamenti mandando baci, invita la vittima a salire a bordo dell’auto ed indirizza sguardi insistenti e minacciosi (Cass. Pen. 12 gennaio 2010, n. 11945); chi rivolge molestie e ricatti verbalmente, per posta elettronica, per telefono o messaggio attraverso i social network (cfr. Cass. Pen., 16 luglio 2010, n. 32404; Trib. Napoli, 30 giugno 2009). Per tutte queste condotte risulta necessario che le minacce o le molestie siano reiterate. La reiterazione evoca non solo una pluralità di condotte, ma altresì il loro verificarsi in tempi e contesti differenti. 
Oltre alla reiterazione degli atti persecutori, ai fini della configurazione del reato è altresì necessaria la produzione di almeno uno degli eventi menzionati dalla norma, ovvero:
1) un perdurante e grave stato di ansia o di paura nella vittima, che trova espressione in quelle forme patologiche di stress o di alterazioni dell’equilibrio psicologico del soggetto passivo.
2) un fondato timore per l’incolumità propria, di un prossimo congiunto o di persona legata alla vittima da una relazione affettiva, il quale può comportare (ma non è essenziale ai fini della configurazione del reato) il mutamento delle abitudini di vita della persona offesa.

Lo stalker è punito con una reclusione da sei mesi a cinque anni, salvo che il fatto non costituisca più grave reato. La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità. Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. Si procede tuttavia d'ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d'ufficio. Durante il procedimento penale può essere applicata la misura cautelare a scopo coercitivo di divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa di cui all’art. 282 ter c.p.p.

Avv. Tiziana Alfano

Fonte: Ministero della Giustizia,

mercoledì 14 ottobre 2015

Autunno: Tempo di Zuppe

Oramai si sa che per difendersi meglio dalle malattie tipiche della stagione invernale bisogna dare maggior importanza al tipo di alimenti che portiamo in tavola. 
Certamente è importante un’alimentazione bilanciata con tutti i nutrienti, ma con un occhio più attento ad alcune categorie di alimenti. 
La regola più importante se si vuole creare uno scudo alla aggressione dei virus, sta nel fare scorta di antiossidanti; è possibile trovarli soprattutto nelle verdure e nella frutta.
Tra i cibi da assumere quando si è ammalati, consiglio delle ottime zuppe di verdure, alimento antico e legato alla tradizione contadina, oggi rivalutato perché sano e leggero, raccomandato soprattutto nel caso delle malattie da raffreddamento perché si tratta di alimenti caldi e liquidi, fondamentali per alleviare la congestione nel caso di raffreddore.


Anche se considerata da molti antiquata, la zuppa dovrebbe fare parte del nostro menù, specialmente nella stagione fredda. Così piena di virtù che dà una mano a mantenere l’equilibrio nutrizionale e la salute. Tiene sotto controllo l’appetito, perché ricca di acqua e fibre, la zuppa riempie lo stomaco senza caricare di calorie. 100 g di Minestra di verdura apportano circa 51 calorie (61,7% carboidrati, 11,4% proteine, 27% grassi).

In più, data la sensazione di sazietà che essa offre, la zuppa è molto buona per diete e per l’equilibrio del metabolismo. Idrata il corpo: è una sorgente d’acqua: una zuppa contiene tra 85 e 90% di acqua. In più, contiene fibre vegetali che provengono dalle verdure, le quali sono meglio assimilate e migliorano la digestione. La zuppa è perfetta per la cena, idrata l’organismo in uno dei momenti chiave della giornata (non dobbiamo dimenticare che la sera, dopo che andiamo a dormire, il nostro corpo si rigenera).
Pulisce l' organismo. L'acqua in combinazione con le fibre dalla verdure, aiuta ad eliminare le tossine, a drenare i resti del cibo e purifica. Aiuta a mangiare più verdure, usandole con grande diversità, ed in una maniera più fresca.
Si mantiene il proprio equilibrio nutrizionale e si aiuta l’organismo a lottare contro le aggressioni giornaliere alle quali è esposto.
Permette il pieno con micronutrienti. Dato il modo di preparazione, le zuppe sono risorse molto ricche di minerali, che non si perdono, ma sono solubili e rimangono libere nel liquido. La zuppa contiene anche potassio in una quantità molto grande, magnesio, calcio, ferro, zinco, selenio, ma anche vitamine (la vitamina B e C per lo più).
E' consigliabile usare le verdure di colori diversi e mischiarle con prezzemolo, sedano, porro; se lessiamo la verdura, per esempio, non buttiamo via l´acqua di cottura ma utilizziamola per una minestra, che avrà anche proprietà rimineralizzanti, da evitare, invece gli altri tipi di cottura.
Se vuoi riempirti di vitalità, pensa solo alle verdure piene di vitamine, minerali e oligo-elementi contenuti nella zuppa!


In più è possibile rendere una zuppa un piatto unico grazie alla combinazione di cereali (farro), legumi (ceci) e verdure; pertanto diventa un pasto completo, composto da carboidrati complessi, proteine vegetali e fibre. Il piatto unico è il modo migliore per sfruttare la sinergia nutritiva tra cereali e legumi, che garantisce un ottimo apporto di proteine nobili. 
L'associazione cereali e legumi fornisce notevoli quantità di fibre, sali minerali, vitamine del gruppo B e sostanze antiossidanti e anticolesterolo. Ottima soluzione da consumare nelle giornate successive ai giorni di festa o in genere a quelli nei quali ci siamo concessi degli strappi alla regola.


Dott.ssa Guerrera Mariacarmela
Biologa Nutrizionista

Il difficile compito della famiglia: l’individualizzazione.

Uno dei sistemi più significativi nel quale ci si trova ad interagire è la famiglia.
La storia, il vissuto, l’atmosfera familiare che sperimentiamo, qualificano e, a volte, determinano l’esperienza di ogni componente. Tutto ciò che come figli abbiamo sperimentato nella vita in comune con i nostri familiari (attraverso messaggi detti e non detti, attraverso quei gesti, quelle modalità di comportamento), entra a far parte della nostra memoria, e va ad incidere profondamente nella strutturazione della nostra personalità. 
La famiglia può essere concepita come un sistema interiorizzato di relazioni, le cui funzioni psichiche sono articolate e si influenzano reciprocamente: pensieri, affetti ed azioni interagiscono. Il legame crea una relazione di reciprocità tra due o più persone, e fa intervenire meccanismi proiettivi e differenti forme di identificazione, che si intersecano a loro volta  (Hughes, 2007). 

La famiglia è come sistema auto-correttivo, dove si stabiliscono regole e proibizioni, ma se un membro della famiglia rompe una regola, gli altri si sentono subito attivati finchè costui si confermi di nuovo alla regola. Quanti di noi, all’interno della propria famiglia, hanno sentito la necessità di infrangere una regola; con fatica cerchiamo di scardinare delle regole troppe rigide per il nostro modo di essere e che impediscono alla nostra personalità di potersi esprimere liberamente, con molta fatica cerchiamo di difendere quello che stiamo per realizzare, ma immancabilmente il sistema famiglia si attiva affinchè tutto ritorni ad essere come prima, affinchè quelle regole vengano di nuovo seguite e rispettate. Non si può disobbedire a certe regole, e non si può essere “diversi”. 

Uno dei compiti più difficili per la famiglia, è proprio quello di sostenere e incoraggiare la crescita dei suoi membri, pur adeguandosi ad una società in continua transizione e pur cercando di combinare insieme sia il senso di appartenenza e sia il senso di differenzazione e individualità di ciscun membro. La famiglia, infatti, rappresenta il contesto relazionale privilegiato in cui viene favorito o ostacolato il processo di individuazione; processo fondamentale per il raggiungimento di una vita sufficientemente autonoma e libera. Come sostiene Bowen (1995), il processo di differenziazione implica diventare se stessi al di fuori del proprio Sé, progettare un percorso personale attraverso il proprio sistema interno di guida, invece di correggere il tiro in base alle esigenze degli altri; ma, in realtà, il processo di differenziazione viene percepito come un atto di slealtà e vissuto anche senso di colpa, tanto più forte è l'unità simbiotica della famiglia.
La differenzazione del sè, si riferisce alla misura in cui gli individui distinguono i processi emozionali e quelli intellettuali, e il loro grado di separazione dalla famiglia di origine. Individui altamente differenziati sono in grado di prendere decisioni e di fare problem solving senza rispondere a stimoli emozionali interni. Al contrario, una persona risulta scarsamente differenziata quando il suo funzionamento intellettuale è dominato da emozioni, e vi è confusione tra pensiero e sentimento. 


Dr.ssa Stefania Alfano
Psicologa-Psicoterapeuta



venerdì 2 ottobre 2015

I SETTE ELEMENTI DEL MOBBING


Il termine mobbing deriva dal verbo inglese “to mob”, che significa “assalire, molestare”, ed indica un comportamento violento ed aggressivo assunto da un soggetto o da un gruppo di soggetti nei confronti di altri.
Sebbene tale termine si applichi in contesti diversi, quali in quello familiare o scolastico, esso viene utilizzato dagli operatori giuridici nei soli rapporti di lavoro.
Nel nostro ordinamento non abbiamo una definizione legislativa del mobbing, ed a tale mancanza ha cercato di sopperire la giurisprudenza, offrendone un concetto alquanto indeterminato. Per mobbing deve intendersi quell’insieme di condotte di forte pressione psicologica ed, in alcuni casi, anche fisica, che datori di lavoro e colleghi possono porre in essere nei confronti di un singolo soggetto (cfr. C.d.S., sez. IV, 19.03.2013, n. 1609). Tali condotte si concretano in una serie di comportamenti a carattere persecutorio, siano essi illeciti o leciti se presi singolarmente,  posti in essere in modo sistematico e prolungato contro l’aggredito, nei confronti del quale tali condotte cagionano umiliazione ed angoscia. E’ necessario inoltre fornire la non facile prova del nesso eziologico tra la condotta vessatoria e l’evento lesivo, e la dimostrazione dell’elemento soggettivo (ex multis: Cass., sez lav. 11.06.2013, n.14643).

Attraverso tali condotte il mobber cerca di far lasciare il posto di lavoro alla vittima, e senz’altro a danneggiare la salute e la personalità del dipendente. Inoltre, la pressione psicologia non può non avere ripercussioni sul rendimento del dipendente, mettendone in discussione la sua professionalità.
Ultimamente, la giurisprudenza di legittimità, nell’intento di rendere chiara ed agevolmente riconoscibile la fattispecie, ha riconosciuto dei punti chiave, fissati da autorevole CTU, i quali se presenti contestualmente individuano il fenomeno del mobbing  (vedi: Cass. Civ., 15.05.2015, n. 10037). 
Tali elementi sono: 
l'ambiente, le aggressioni devono avvenire sul luogo del lavoro
la durata, non viene fissato un limite temporale, prevedendo solo che i comportamenti vessatori vengano posti in essere in maniera prolungata nel tempo
la frequenza, le azioni non devono essere isolate, ma sistematiche
il tipo di azioni ostili, quali, ad esempio, attacchi alla possibilità di comunicare, isolamento sistematico, cambiamenti delle mansioni lavorative, attacchi alla reputazione, violenze o minacce
il dislivello tra gli antagonisti, nel rapporto tra il mobber e la vittima, questa assume una posizione di inferiorità manifesta
l'andamento secondo fasi successive, il rapporto si sviluppa secondo fasi successive, attraverso le quali si giunge al momento conclusivo del pregiudizio dell’integrità psico-fisica dell’aggredito e dell’esclusione dal mondo del lavoro
l'intento persecutorio, il mobber attraverso la serie ripetuta di comportamenti aggressivi e violenti, svela l’intento unitario di sottoporre a continue molestie il dipendente.
Questi profili vanno accertati caso per caso al fine di verificare la sussistenza del mobbing, dal momento che esso può non configurarsi in alcune ipotesi, quali ad esempio, nelle ipotesi di attribuzioni di mansioni diverse al lavoratore quando queste non siano dequalificanti.

Dr.ssa Tiziana Alfano
Laurea in Giurisprudenza


lunedì 21 settembre 2015

Il cibo e le emozioni.



Mangiare è parte integrale e sostanziale del vivere sano. Il cibo e l’atto di mangiare sono associati, dalla maggior parte delle persone, a pensieri e sentimenti positivi e/o negativi. Esiste, ed è ormai ampiamente documentato da diverse ricerche, un forte e stretto legame tra il cibo e le emozioni. 
Venire nutriti da neonati è uno dei primi modi in cui noi sperimentiamo la relazione di accudimento. Mangiare rappresenta il modo in cui ci prendiamo cura di noi stessi e anche il modo in cui ci prendiamo cura degli altri. Il cibo fa parte, in linea generale, con il dare e il ricevere, con il nutrimento e la cura, con le persone e con le relazioni. 

Possono esserci diversi problemi alimentari: abbuffarsi, negare o limitare il cibo, alimentazione emotiva, mantenere una forma corporea che non rientra in un ambito salutare, incapacità di sentire la fame o la sete, difficoltà a scegliere e/o acquistare il cibo, difficoltà nello stabilire delle abitudini alimentari sane e regolari.
Tendo a sottolineare che l’attenzione e la conoscenza relativa ad abitudini alimentari differiscono da persona e persona, da famiglia a famiglia e da cultura a cultura, per questo è di fondamentale importanza rivolgersi a specialisti della salute alimentare se si vuole intraprendere un percorso specifico e personalizzato riguardo alla propria difficoltà con il cibo. I fattori che possono determinare l’insorgere di queste difficoltà con il cibo, possono essere diversi: situazioni familiari problematiche, contesto sociale, eventi fortemente stressanti, convinzione che la persona venga valutata solo in base al suo aspetto fisico, percezione distorta della propria immagine corporea, mancanza di autostima, perfezionismo. 


Resta il fatto che mangiare è una necessità, ci fornisce l’energia e i nutrienti di cui abbiamo bisogno per vivere. Sappiamo tutti, però, che gli eccessi, ovvero mangiare troppo poco o mangiare troppo, possono causare sintomi sia fisici che psicologici, possono riflettere condizioni di stress elevato non gestibili se non attraverso il cibo, portando la persona ad avere, in generale, una immagine del corpo disturbata e una relazione disfunzionale con il cibo. Può comportare delle conseguenze non sempre positive come ad esempio: un forte aumento di peso, un dimagrimento eccessivo, senso di colpa, vergogna, la rinuncia a cercare altre forme di gratificazione.
La relazione con il cibo diventa il mezzo che abbiamo a disposizione per esternare un malessere interiore, e/o per gestire emozioni troppo intense e dolorose. Così che per esempio, abbuffarsi, può diventare, in mancanza di altre possibilità espressive, l’unica risposta indiscriminata a difficoltà affettive ed emotive. Mangiando si possono placare un’aggressività non altrimenti esternata, così come attraverso il cibo si possono attenuare momentaneamente stati d’ansia o sintomi depressivi, il cibo può consolarci da delusioni o da diversi eventi traumatici e di disagio. Ma bisogna fare attenzione a questo meccanismo automatico: ad esempio se sono triste, mangio oppure se sono arrabbiato, non mangio. Ognuno di noi poi trova il proprio modo di usare il cibo per non sentire o non sperimentare le proprie emozioni. Diversi autori evidenziano, attraverso molte ricerche, come alla base di una relazione disfunzionale con il cibo ci sia l’evidente difficoltà della regolazione affettiva-emotiva.

Onno Van der Hart et al. (2013) nel suo capitolo Sviluppare abitudini alimentari sane, descrive alcune proposte per risolvere le difficoltà relative ad un’alimentazione sana, di seguito riporto alcuni dei suoi suggerimenti:
- Imparare a riconoscere e a comprendere le proprie difficoltà rispetto al cibo e all’atto di mangiare. Si potrebbe fare una lista delle eventuali difficoltà, e segnare da dove si vuole cominciare, ricordandosi di iniziare dai più facili prima di passare a quelli più complessi.
- Nota ciò che succede quando pensi ai tuoi problemi di alimentazione, come ad esempio avere difficoltà a fare la spesa o mangiare in maniera irregolare. Di quali emozioni e sensazioni sei consapevole?
- Se si hanno preferenze o avversioni marcate per alcuni cibi, si può imparare ad essere flessibili; si può, ad esempio, evitare temporaneamente un certo cibo oppure si può acconsentire ad un cibo che sentite avverso, ma con moderazione. 
- Può essere utile creare, insieme ad uno specialista, un diario alimentare.
- Gli schemi di alimentazione hanno spesso uno scopo emotivo sottostante: si può mangiare quando si è stanchi, annoiati, arrabbiati, e depressi. Quando si ha fame allora, ma non si ha bisogno di mangiare, nota quali sono le emozioni o i pensieri. Ci sono dei sentimenti o delle situazioni che potresti voler evitare mangiando? 
- Abbuffarsi è di solito un modo di regolare sentimenti insopportabili. Con l’aiuto di uno specialista si può iniziare a capire di più su alcune parti che entrano in gioco nel momento dell’abbuffata, e si possono cercare delle alternative adatte.
- Se si hanno difficoltà alimentari seri, bisogna essere onesti con se stessi e rivolgersi a specialisti. 


I problemi dell’alimentazione, come molti altri problemi, per essere risolti, possono richiedere del tempo. È importante, dunque, la motivazione al cambiamento, essere pazienti ed empatici verso se stessi, e concedersi di essere contenti di fare piccoli passi per volta. Essere consapevoli delle emozioni che si sentono in un dato momento, è il primo passo verso il cambiamento della  relazione che si ha con il cibo, e per affrontare la difficoltà che abbiamo con esso. Spesso, infatti, le diete falliscono perché sono basate sulla forza di volontà ma non su un percorso di conoscenza di se stessi e di che tipo di relazione ho con il cibo. 

Il cibo e le emozioni sono parti integranti e indispensabili della nostra vita, impariamo a gestire e a vivere le emozioni in maniera integrata ed equilibrata attraverso un‘ attenta consapevolezza di quei meccanismi che mettiamo in moto nella relazione che abbiamo con il cibo. La consapevolezza ci aiuta a renderci conto dei nostri comportamenti, a riconoscere gli automatismi, le azioni reiterate, inconsapevoli e impulsive che noi mettiamo in atto. Impariamo, dunque, a riconoscere i nostri stati interni, ad ascoltare e conoscere il nostro corpo, e soprattutto ad entrare contatto con le nostre emozioni e con i nostri bisogni, e a riconoscere il cibo come bisogno di nutrimento e non come il mezzo che abbiamo a portata di mano per evitare di ascoltare e vivere le nostre emozioni. 


Dr.ssa Stefania Alfano
Psicologa-Psicoterapeuta

giovedì 3 settembre 2015

Nutrizione & Sport

Gli sportivi amatoriali sanno davvero scegliere la giusta alimentazione? Vediamolo insieme.


L'acquisizione di una buona condizione fisica e il raggiungimento della miglior performance sportiva spesso non va di pari passo col benessere del nostro organismo. Si ricorre, infatti, a regimi alimentari fortemente restrittivi e punitivi come diete lampo, diete fai da te o all'utilizzo di pasti sostitutivi magari abbinati ad attività fisica regolare senza pensare che il mangiarein modo corretto è ancora più importante per chi pratica qualsiasi tipo di sport rispetto al sedentario. Per migliorare la propria condizione. Per migliorare la propria condizione di benessere è necessario un processo "correttivo" graduale. La soluzione è quella di adottare un comportamento alimentare equilibrato giorno per giorno, senza focalizzarsi su obiettivi di breve termine difficili e rischiosi per la nostra salute. Ci si deve sforzar di guardare oltre e cioè di darci come obiettivo ultimo l'apprendimento di uno stile di vita e alimentare corretto. Per lo sportivo, in particolare, sarà utile conoscere quali sono gli alimenti funzionali alla sua attività e in quali quantità, modalità e porzioni assumerli. Una dieta variata, composta dai cibi normali e freschi scelti tra i diversi gruppi alimentari, fornisce un adeguato apporto di tutti i nutrienti comprese vitamine e sali minerali. Ecco alcuni punti fondamentali per ottenere il massimo dalle performance sportive:
  • mai saltare pasti o spuntini
  • mai fare attività fisica a stomaco vuoto
  • non dimenticarsi di bere durante l'attività fisica
  • prima dell'attività fisica:
    _mattutina: colazione con fette biscottate o fette di pane integrali con un velo di marmellata (senza zuccheri aggiunti) tralasciando latte e derivati e magari aggiungendo un frutto fresco di stagione;
    _pomeridiana o serale: (2-2.30 ore prima): mangiare un piatto di pasta condito con pomodoro e 1cucchiaio di olio extra vergine a crudo e non carne, prosciutto, pesce o formaggio che allungherebbero i tempi della digestione;
    _lontano dai pasti: uno spuntino a base di pane e marmellata o una barretta o thé con biscotti secchi (meglio non frollini);
Prediligere inoltre:
  • latte parzialmente scremato al posto di latte intero;
  • yogurt magro rispetto a quello intero;
  • marmellata biologica senza zucchero aggiunto o light al posto di quella normale;
  • alimenti integrali e non raffinati (pane, pasta, derivati) i quali donano più sazietà e, grazie alle fibre,innalzano meno la glicemia;
  • pane comune normale o integrale senza grassi aggiunti al posto del pane condito;
  • spremuta o succhi senza zuccheri aggiunti al posto di succo con zucchero.


E' molto importante sottolineare come queste indicazioni non sono assolutamente personalizzate e non possono in nessun caso costituire un programma dietetico, ma sono esclusivamente consigli generici.

Dott.ssa Guerrera Mariacarmela
Biologa Nutrizionista

Lo sviluppo dell'empatia

Generalmente definiamo empatia, la capacità di immedesimarsi e comprendere le emozioni di un’altra persona. La parola deriva dal greco “εμπαθεία” (empatéia, composta da en-, "dentro", e pathos, "sofferenza o sentimento"), significa, appunto, “sentire dentro”.

Il modello di sviluppo di Martin Hoffman è considerato uno dei più esaustivi modelli di sviluppo dell’empatia. L'autore articola l’empatia in diverse capacità e competenze che, con il procedere dello sviluppo, diventano sempre più mature e sofisticate. In questo modello, la componente affettiva e la componente cognitiva interagiscono costantemente, e, in ciascuno stadio evolutivo, includono la motivazione ad agire positivamente in modo da alleviare il disagio altrui.

I primi segnali di empatia, appaiono sorprendentemente presto. Fin dalle primissime ore di vita sono osservabili nei neonati delle reazioni di distress empatico globale. Nei primi mesi di vita, i neonati non sono in grado di percepire se stessi e gli altri come entità distinte; percepiscono la sofferenza di qualcuno, come se fosse una propria l’emozione. L’empatia, in tale fase, si connota come una reazione affettiva, automatica e involontaria, che prende il nome di contagio emotivo ( ad esempio il pianto mostrato dai neonati in risposta al pianto di altri neonati).

Intorno al primo anno di vita, i bambini cominciano a percepire una prima distinzione tra sé e l’altro, e ad attribuire alle espressioni facciali un particolare significato. In questa fase, definita fase di distress empatico egocentrico, i bambini mimano le emozioni provate dall’altro, ma sono azioni finalizzati ad attenuare il proprio stato di angoscia, adottando condotte auto consolatorie come ad esempio succhiarsi il pollice o accarezzarsi.
Dal secondo anno, i bambini  sono consapevoli dei vissuti degli altri e sono, inoltre, in grado di identificare specifiche situazioni che possono provocare specifici vissuti emotivi nell’altro. Hoffman parla di sofferenza empatica quasi-egocentrica, la quale si caratterizza con l’aiutare l’altro. E’ questo il caso di un bambino di 2 anni e mezzo, che nel momento in cui porge un giocattolo ad un compagno che piange, sembrerebbe dimostrarsi consapevole che egli sta provando un’emozione negativa. Il bambino ha imparato ad attivare comportamenti che riguardano il contatto fisico: carezze, baci, abbracci, aiuto fisico, ed altri comportamenti tesi ad aiutare e consolare l’altro.

Intorno al terzo anno di vita si sviluppa in modo più completo la capacità di oggettivazione di sé, e il bambino acquisisce la consapevolezza che gli altri hanno pensieri e sentimenti diversi dai propri. E' la fase della vera empatia per lo stato d’animo di un’altra persona. In altre parole, la situazione che l'altro vive, sarà percepita dal bambino come se la vivesse in prima persona.
Dai  5-6 anni in poi, con lo sviluppo di una maggiore competenza linguistica, il bambino interagisce con l’altro in modo più appropriato; mostrano una capacità di discutere le proprie e le altrui emozioni (tale abilità migliora considerevolmente nel corso dello suo sviluppo), e, inoltre, grazie alla capacità di decentramento, sono più abili nell'assumere il ruolo dell'altro, e si rendono conto che comunicare i propri sentimenti ad un’altra persona può farli sentire meglio o può ferire l’altra persona.
L’ultima fase, è definita distress empatico oltre la situazione. Dai 9 anni, i bambini, sviluppano un senso di se stabile, e realizzano che gli altri hanno una propria identità che influenza e può influenzare il comportamento e la risposta empatica. Intorno ai 13 anni, si raggiunge il pieno sviluppo dei meccanismi cognitivi implicati nel processo dell’empatia.  

L’empatia, dunque, è una delle condizioni relazionali senza la quale noi non possiamo sentire, agire, ed essere, e senza la quale noi non potremmo avere la sensazione di fiducia in noi stessi e negli altri, e, ancora, senza la quale noi non potremmo avere sostegno e aiuto nei momenti di difficoltà. Educhiamoci a parlare, con i nostri bambini, delle emozioni, a parlare di ciò fa star male loro e gli altri; questo è un modo efficace per incrementare nei bambini le capacità empatiche, l’altruismo e le competenze prosociali. 

Dott.ssa Stefania Alfano
Psicologa Psicoterapeuta

mercoledì 26 agosto 2015

La mediazione nei luoghi di lavoro

All’interno delle équipe di lavoro, le tensioni latenti o i contrasti aperti, spesso, non soltanto incidono negativamente sulla produttività dell’ente, ma giungono a condizionare pesantemente la serenità delle persone coinvolte, anche di coloro che non sono gli attori principali della vicenda conflittuale. La sfera lavorativa, costituisce una quota importante della vita quotidiana, e l’atmosfera che vi regna, può essere un elemento capace di influenzare aspetti diversi dell’esistenza di ciascuno: dallo stato d’animo con il quale ogni giorno “ci si presenta al lavoro”, al rapporto con se stessi e con gli altri, inclusi familiari e coniugi. 

Una comunicazione strategica, è caratterizzata dal suo essere sempre orientata in direzione di un obiettivo da raggiungere. Il “persuasore” si propone di guidare l’altro ad assumere una particolare posizione, che lo porterà a modificare la propria percezione rispetto a una data realtà. Per farlo, egli si preoccupa di strutturare la forma della propria comunicazione, in modo tale da facilitare questo processo, piuttosto che andare alla ricerca di una condivisione di contenuti. 
Nelle strutture organizzate, come l’ambiente di lavoro, esistono dei sistemi di regole più o meno formali, che permettono alle persone che condividono ogni giorno quel luogo di lavoro, di agire secondo un obiettivo comune. Quando qualcuno infrange una o più di queste regole, aumenta la probabilità che nascano dei conflitti all’interno dell’ambiente lavorativo, ovvero il disequilibrio delle relazioni fra colleghi o fra colleghi e superiori e così via.  Sono molti i fattori che determinano il sorgere dei conflitti. Dalle caratteristiche dei gruppi, alle regole di interazione, passando per le differenze interpersonali, il modo in cui trattiamo gli altri e la percezione della situazione. 

Per quanto riguarda le caratteristiche dei gruppi, la situazione tipica è il formarsi dei cosiddetti “gruppetti”, che tendono inevitabilmente a dividere le persone, e spesso a far nascere dicerie e voci di corridoio, con conseguenze facilmente immaginabili. Le regole di interazione, sono molto importanti perché la loro infrazione determina quasi sempre lo scontro fra parti diverse e, in particolar modo, verso chi ha infranto quelle regole. 

Lo stessa rilevanza viene assunta dalle differenze interpersonali. Le persone sono diverse e non necessariamente ognuno ha il dovere di andare d’accordo con tutti. L’importante è riuscire a gestire le differenze. I conflitti si generano quando le persone non sono in grado di gestire diversità di pensiero, di genere, d’età o quando qualcuno ha il bisogno di prevalere sugli altri, qualsiasi siano le conseguenze di un tale atteggiamento. I pregiudizi o i forti stereotipi sulle persone, portano al formarsi di idee preconcette che compromettono le relazioni fra i collaboratori, e la nostra interpretazione degli eventi, influisce sui nostri comportamenti, e sul modo in cui ci rapportiamo agli altri. 

In una prospettiva di risoluzione dei conflitti, è necessario ricordare che è bene prima di tutto operare un' attenta analisi del conflitto, in secondo luogo, conviene analizzare i costi e i benefici della eventuale risoluzione, e, in ultimo, chiedersi se è più facile chiedere una modifica del comportamento altrui o adattare il nostro alla situazione. 


Una metodologia molto utile è la simulazione. Cioè si produce o si riproduce una situazione che potrebbe accadere. Non meno importante è il Role-play, all'interno di una simulazione che rappresenta un conflitto sociale. Tra le indicazioni principali per il Role-play, è bene ricordare, innanzitutto, che non c'è ruolo “giusto” o “sbagliato” e non ci sono ruoli/atteggiamenti “ridicoli”. Lo strumento ha un valore in sé (non è però il fine dell'esercizio). Ogni ruolo è importante ed è importante per gli spettatori/osservatori annotarsi ed osservare la strategia del protagonista così come “calarsi” nella parte cercando di vivere il ruolo in prima persona ed evitando di interpretare stereotipi (es. il dirigente becero, il funzionario tuttofare, il dipendente giornalaio). Dopo aver rappresentato la scena, si avvia una discussione, che analizzi il tipo di conflitto, la modalità di risposta data, e la modalità di risposta che si potrebbe dare. Infine, si passa alla valutazione finale, partendo da qualsiasi spunto ognuno esprime, il proprio stato d’animo, le proprie riflessioni, i suggerimenti e le valutazioni.

E’ bene quindi che, se c'è un conflitto nel gruppo, che emerga. La gestione di un conflitto presuppone il coinvolgimento delle persone in conflitto. Il conflitto, nasce dalla tendenza di due o più soggetti in relazione tra loro a soddisfare i propri bisogni partendo da una posizione di totale soggettività. La posizione soggettiva, vuol dire che la persona è perfettamente in contatto con se stessa, ed è in contatto con gli altri e con l'ambiente. Si hanno, dunque, tre livelli di  percezione conflittuale: percezione di sé, percezione di sé in rapporto con gli altri, e  percezione di sé in rapporto con gli altri nell'ambiente. 

La teoria dei bisogni di Maslow, dice che la deprivazione di uno specifico bisogno impedisce alle persone di poter evolvere verso il processo di autorealizzazione. Il  mantenersi in contatto con i propri bisogni, è quindi un elemento fondamentale di crescita personale e  di miglioramento della relazione fra sé e gli altri.


Dott.ssa Giuseppina D'Auria
Pedagogista

lunedì 10 agosto 2015

Finalmente in vacanza!


Dopo un anno di duro lavoro ed un inverno particolarmente freddo, le vacanze, finalmente, sono arrivate. Ma spesso andare in vacanza, si rivela una situazione fortemente stressante. Tra prenotazioni, valigie, code in auto, lunghe ore di volo, pasti irregolari, la vacanza diventa un momento di forte stress. Così accade che quello che doveva essere un momento di stacco dalla routine e dalle attività quotidiane, diventa, invece, momento di frustrazione, insoddisfazione, ansia, nervosismo, e di frequenti litigi con gli altri.

Allora cosa fare? 

Ognuno di noi ha un’idea di cosa sia vacanza (relax, divertimento, svago, benessere), e ha un’idea di dove voler trascorrere le vacanze (mare, montagna, città), ma capita che, già, il momento in cui dobbiamo decidere cosa, dove, e con chi, diventa momento di stress. In questa fase, è necessario considerare le proprie preferenze, i propri bisogni, e le proprie esigenze, e se si viaggia con la famiglia o con gli amici è utile che ognuno esprimi liberamente le proprie necessità; meglio esprimere le proprie idee prima, che ritrovarsi poi a dire all'altro: era meglio fare come pensavo io. La vacanza, è anche un’ottima occasione per condividere e confrontarsi, e per imparare ad ascoltare i nostri bisogni, e quelli degli altri.

Altro aspetto importante, è quello di non avere aspettative elevate rispetto alla vacanza, non idealizzarla sarebbe meglio. Idealizzando troppo la vacanza, si corre il rischio di imbattersi in una grande delusione. Chiunque di noi, appena chiusa la valigia, ha detto: questa volta voglio proprio rilassarmi, oppure questa volta voglio proprio divertirmi. Invece, capita che nel corso della vacanza, non siamo per nulla in relax e che non ci stiamo divertendo affatto! In tal modo, passeremo la vacanza a rimuginare su quello che doveva essere, focalizzandoci solo sugli aspetti negativi che stiamo vivendo, mentre, invece, occorre imparare a dirigere lo sguardo altrove, e a spingerlo al di là degli imprevisti e delle aspettative deluse; saper vedere quello che ci sta intorno con un sguardo nuovo e positivo, può essere un’occasione per crescere e migliorare. 

Capita spesso di affidare alle vacanze un potere quasi magico, ossia quello che in un breve periodo, tutto lo stress accumulato durante l’anno, possa magicamente sparire, per far spazio, alla serenità, al divertimento e al relax. Occorre, invece, accogliere il momento delle vacanze per quello che è in realtà: un momento di stacco dalla routine, un momento in cui il corpo e la mente si rigenerano, un momento in cui si ha la possibilità di stare di più in contatto con se stessi e con gli altri, un momento per aprirsi a nuove esperienze.



La vacanza è un'occasione per imparare ad essere consapevoli di quello che viviamo in un preciso momento. Dovremmo imparare a “staccare la spina”, e aggiungerei, a “staccare la connessione internet”, in modo da allontanarci dalle preoccupazioni del lavoro, dalle ansie delle attività quotidiane, dalle foto che non riusciamo a caricare sui nostri social, e godere interamente dell’atmosfera che stiamo vivendo in quel preciso momento, del cibo che stiamo assaporando, del paesaggio che stiamo guardando, e della compagnia che abbiamo accanto.

Non resta che augurarvi: Buone Vacanze.
Dott.ssa Stefania Alfano
Psicologa-Psicoterapeuta

lunedì 27 luglio 2015

PREVENZIONE E COMPORTAMENTI PROSOCIALI


Nel periodo dai tre ai sei anni circa, le abilità sociali dei bambini si arricchiscono grazie alle maggiori occasioni di contatto con i coetanei e con adulti al di fuori della famiglia: l’ingresso alla scuola materna rappresenta per il bambino/a una importante esperienza sociale allargata.
Il bambino entra a far parte in modo stabile di un gruppo di coetanei, con i quali ha l’opportunità di compiere nuove esperienze di gioco, ma la convivenza gli pone nuove sfide: capire il punto di vista dell’altro e adattarvisi almeno in parte, collaborare con i compagni e frenare gli impulsi aggressivi, imparare a difendersi quando occorre.


I rapporti con i coetanei contribuiscono in modo sostanziale allo sviluppo delle competenze sociali e la mediazione dell’adulto è necessaria per far sì che il bambino si adegui alle nuove regole di comportamento.
E’ importante tenere presente che l’aggregazione dei bambini nelle istituzioni educative può portare alla nascita di frequenti litigi e tensioni che sono da considerare tuttavia normali.
Il bambino ha, in effetti, il diritto a vivere il conflitto o il litigio perché ciò rappresenta per lui una specifica forma di apprendimento per l’acquisizione di regole sociali: è nel conflitto, infatti, che il bambino scopre il senso del limite, ovvero la presenza degli altri, siano essi adulti o coetanei. In questo contesto relazionale, il bambino impara ad arginare il proprio egocentrismo, a controllare i propri impulsi aggressivi e a riconoscere la resistenza dell’altro. Insomma, nel conflitto il bambino vive un’esplorazione personale come vera area di crescita formativa.
Le ricerche condotte negli ultimi anni hanno dimostrato che il bambino in età prescolare è desideroso di contatti con l’altro ed è in grado di sviluppare rapporti significativi con i coetanei e con gli adulti di riferimento e di mettere in pratica una infinità di strategie per favorire e mantenere questi rapporti.
Inoltre, varie ricerche hanno individuato nei bambini la capacità di comportarsi con modalità “empatiche”, in modo collaborativo e cooperativo, e non ultimo la capacità di risolvere in maniera positiva un conflitto.
Questi aspetti sono definiti come comportamenti “prosociali”, dove alla radice di questi atti c’è la comprensione dell’altro e la conseguente  e adeguata reazione emotiva.
I bambini e le bambine spendono una considerevole dose di saggezza per riuscire a risolvere le eventuali situazioni conflittuali, confrontandosi tra loro e negoziando soluzioni accettabili sul piano interpersonale: tuttavia, sia pure in un limitato numero di casi, i conflitti possono sfociare in aggressioni fisiche o verbali.
Per evitare che questo accada, è necessario che il bambino riconosca e comprenda le emozioni che entrano in campo (rabbia, aggressività, competizione, paura ecc.) ed è quindi opportuno sostenerlo nel riconoscimento, nella comprensione e nella gestione di tali emozioni.
Spesso nel conflitto la rabbia prende il sopravvento sul bambino che, trovandosi davanti a tale esperienza emotiva disarmato ed impotente, è portato a trasformarla in taluni casi in aggressività e/o violenza. Questa “impotenza” è alla base del disagio che egli prova  nell'affrontare una relazione conflittuale, nel sentirsi pervaso dalla propria condizione emotiva che non conosce o non riconosce e che pertanto lo spaventa.
La rabbia è un sentimento che ogni individuo prova e deve provare:
come tutte le condizioni emotive è positiva ed è possibile esprimerla senza violenza, senza danneggiare se stessi o il prossimo. La rabbia repressa, invece, può diventare esplosiva e dannosa in quanto può trasformarsi in violenza e/o sopruso verso l’altro.
I bambini, anche se piccoli, possono imparare quale limite devono imporre ai loro comportamenti per il proprio bene e l’altrui sicurezza, ma è necessario educarli a gestire queste emozioni trovando delle modalità di espressione che risultino efficaci e non distruttive.
L’educazione a questa emozione, intesa come il suo reale riconoscimento, è quindi necessaria per prevenire future disfunzioni relazionali sin dall’età prescolare.
• Dietro alla rabbia del bambino possono nascondersi sensazioni di sofferenza, paura e impotenza. La comprensione da parte dell’adulto diventa fondamentale perché per il bambino è essenziale sapere di essere “riconosciuto” e compreso dall’adulto (empatia adulto/ bambino). In questo modo egli si sente valorizzato e ciò lo aiuta a sviluppare un sano concetto di sé.
• La comunicazione con il bambino deve essere tale da fornirgli un vocabolario adatto a parlare delle proprie emozioni e delle occasioni per poterle esprimere.
• Aiutare il bambino ad esprimere senza paura le proprie emozioni, ad esempio iniziare la conversazione dicendo “Sembra proprio che tu sia arrabbiato. Me ne vuoi parlare?”. Questo aiuta il bambino a trovare delle parole per esprimere ciò che sente e quindi scaricare la tensione.
• Aiutare il bambino a riflettere e a capire quando si sente arrabbiato, perché e cosa vorrebbe fare è un buon inizio per prendere dimestichezza con le proprie emozioni.
• Evitare di rispondere alla rabbia dei bambini con aggressività; questo non farebbe altro che esasperarli.
• Dare regole chiare, precise e motivate aiuta il bambino a fargli capire la regola e perché va osservata (ad esempio aiutandolo a capire la reazione dell’altro).
• Far capire ai bambini che comprendiamo le loro emozioni: “Si vede che sei molto arrabbiato”.
• Un buon ascolto aiuta a far sbollire la rabbia ed accresce l’autostima dei bambini.
• I bambini imparano di più da ciò che gli adulti fanno che da quello che dicono. Sarebbe opportuno che ogni adulto valutasse la propria modalità di risoluzione dei conflitti.
Si può davvero concludere che i bambini, in età prescolare, dovrebbero aver già acquisito delle strategie che permettano loro di risolvere le situazioni di conflitto e che lascino spazio all’ascolto dell’altro (controproposte, mediazione, compromesso) piuttosto che utilizzare
delle soluzioni che producono rottura dei rapporti o soluzioni violente.

Pedagogista