lunedì 27 luglio 2015

PREVENZIONE E COMPORTAMENTI PROSOCIALI


Nel periodo dai tre ai sei anni circa, le abilità sociali dei bambini si arricchiscono grazie alle maggiori occasioni di contatto con i coetanei e con adulti al di fuori della famiglia: l’ingresso alla scuola materna rappresenta per il bambino/a una importante esperienza sociale allargata.
Il bambino entra a far parte in modo stabile di un gruppo di coetanei, con i quali ha l’opportunità di compiere nuove esperienze di gioco, ma la convivenza gli pone nuove sfide: capire il punto di vista dell’altro e adattarvisi almeno in parte, collaborare con i compagni e frenare gli impulsi aggressivi, imparare a difendersi quando occorre.


I rapporti con i coetanei contribuiscono in modo sostanziale allo sviluppo delle competenze sociali e la mediazione dell’adulto è necessaria per far sì che il bambino si adegui alle nuove regole di comportamento.
E’ importante tenere presente che l’aggregazione dei bambini nelle istituzioni educative può portare alla nascita di frequenti litigi e tensioni che sono da considerare tuttavia normali.
Il bambino ha, in effetti, il diritto a vivere il conflitto o il litigio perché ciò rappresenta per lui una specifica forma di apprendimento per l’acquisizione di regole sociali: è nel conflitto, infatti, che il bambino scopre il senso del limite, ovvero la presenza degli altri, siano essi adulti o coetanei. In questo contesto relazionale, il bambino impara ad arginare il proprio egocentrismo, a controllare i propri impulsi aggressivi e a riconoscere la resistenza dell’altro. Insomma, nel conflitto il bambino vive un’esplorazione personale come vera area di crescita formativa.
Le ricerche condotte negli ultimi anni hanno dimostrato che il bambino in età prescolare è desideroso di contatti con l’altro ed è in grado di sviluppare rapporti significativi con i coetanei e con gli adulti di riferimento e di mettere in pratica una infinità di strategie per favorire e mantenere questi rapporti.
Inoltre, varie ricerche hanno individuato nei bambini la capacità di comportarsi con modalità “empatiche”, in modo collaborativo e cooperativo, e non ultimo la capacità di risolvere in maniera positiva un conflitto.
Questi aspetti sono definiti come comportamenti “prosociali”, dove alla radice di questi atti c’è la comprensione dell’altro e la conseguente  e adeguata reazione emotiva.
I bambini e le bambine spendono una considerevole dose di saggezza per riuscire a risolvere le eventuali situazioni conflittuali, confrontandosi tra loro e negoziando soluzioni accettabili sul piano interpersonale: tuttavia, sia pure in un limitato numero di casi, i conflitti possono sfociare in aggressioni fisiche o verbali.
Per evitare che questo accada, è necessario che il bambino riconosca e comprenda le emozioni che entrano in campo (rabbia, aggressività, competizione, paura ecc.) ed è quindi opportuno sostenerlo nel riconoscimento, nella comprensione e nella gestione di tali emozioni.
Spesso nel conflitto la rabbia prende il sopravvento sul bambino che, trovandosi davanti a tale esperienza emotiva disarmato ed impotente, è portato a trasformarla in taluni casi in aggressività e/o violenza. Questa “impotenza” è alla base del disagio che egli prova  nell'affrontare una relazione conflittuale, nel sentirsi pervaso dalla propria condizione emotiva che non conosce o non riconosce e che pertanto lo spaventa.
La rabbia è un sentimento che ogni individuo prova e deve provare:
come tutte le condizioni emotive è positiva ed è possibile esprimerla senza violenza, senza danneggiare se stessi o il prossimo. La rabbia repressa, invece, può diventare esplosiva e dannosa in quanto può trasformarsi in violenza e/o sopruso verso l’altro.
I bambini, anche se piccoli, possono imparare quale limite devono imporre ai loro comportamenti per il proprio bene e l’altrui sicurezza, ma è necessario educarli a gestire queste emozioni trovando delle modalità di espressione che risultino efficaci e non distruttive.
L’educazione a questa emozione, intesa come il suo reale riconoscimento, è quindi necessaria per prevenire future disfunzioni relazionali sin dall’età prescolare.
• Dietro alla rabbia del bambino possono nascondersi sensazioni di sofferenza, paura e impotenza. La comprensione da parte dell’adulto diventa fondamentale perché per il bambino è essenziale sapere di essere “riconosciuto” e compreso dall’adulto (empatia adulto/ bambino). In questo modo egli si sente valorizzato e ciò lo aiuta a sviluppare un sano concetto di sé.
• La comunicazione con il bambino deve essere tale da fornirgli un vocabolario adatto a parlare delle proprie emozioni e delle occasioni per poterle esprimere.
• Aiutare il bambino ad esprimere senza paura le proprie emozioni, ad esempio iniziare la conversazione dicendo “Sembra proprio che tu sia arrabbiato. Me ne vuoi parlare?”. Questo aiuta il bambino a trovare delle parole per esprimere ciò che sente e quindi scaricare la tensione.
• Aiutare il bambino a riflettere e a capire quando si sente arrabbiato, perché e cosa vorrebbe fare è un buon inizio per prendere dimestichezza con le proprie emozioni.
• Evitare di rispondere alla rabbia dei bambini con aggressività; questo non farebbe altro che esasperarli.
• Dare regole chiare, precise e motivate aiuta il bambino a fargli capire la regola e perché va osservata (ad esempio aiutandolo a capire la reazione dell’altro).
• Far capire ai bambini che comprendiamo le loro emozioni: “Si vede che sei molto arrabbiato”.
• Un buon ascolto aiuta a far sbollire la rabbia ed accresce l’autostima dei bambini.
• I bambini imparano di più da ciò che gli adulti fanno che da quello che dicono. Sarebbe opportuno che ogni adulto valutasse la propria modalità di risoluzione dei conflitti.
Si può davvero concludere che i bambini, in età prescolare, dovrebbero aver già acquisito delle strategie che permettano loro di risolvere le situazioni di conflitto e che lascino spazio all’ascolto dell’altro (controproposte, mediazione, compromesso) piuttosto che utilizzare
delle soluzioni che producono rottura dei rapporti o soluzioni violente.

Pedagogista

sabato 18 luglio 2015

La preparazione mentale dell’atleta. Alcune tecniche di mental training.



Spesso accade che alla domanda “il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto?”, una buona parte di noi tenda a concentrarsi sul negativo ("bicchiere mezzo vuoto"). Succede che ciò che inizialmente, sembra essere solo una predisposizione, e diventa poi inevitabilmente un'abitudine di pensiero. Tale modalità di pensiero, regola le nostre operazioni mentali, il che significa che, ad esempio, condizioni come la paura, la preoccupazione, l’insoddisfazione, nascono da pensieri del tipo…’io sono inadeguato, io non riuscirò mai a vincere questa gara’, diventando, poi fatti. Il pensiero positivo, quindi, prima ancora di essere una tecnica di preparazione mentale, è una filosofia di vita.

Per poter effettuare Tecniche di mental training, è importante che lo psicologo sportivo conosca bene l'atleta in modo da sapere quale sia la sua predisposizione iniziale "a pensare positivo", bisogna capire come vive gli eventi sia positivi che negativi, e bisogna anche capire cosa lui attribuisca alla vittoria o alla perdita di una partita. Bravura, fortuna, fatalità?  Da questi elementi, è possibile valutare  anche l'autostima dell'atleta. Ecco perché è necessario aiutare l'atleta a cercare, inizialmente insieme, ciò che lui reputa positivo per se stesso. E' un allenamento continuo: spostare il pensiero negativo verso quello positivo. Mano a mano, ciò che sembra uno sforzo diventa, poi, naturale. L'atleta scopre che ha imparato a pensare positivo. E siccome il pensiero positivo è "contagioso", senza rendersene pienamente conto, l'atleta comincia ad insegnare a pensare in positivo a chi sta accanto a lui. Questa è la migliore prova che la tecnica è stata compresa, accettata e praticata.
Tra le varie tecniche: la concentrazione, le tecniche di rilassamento e la visualizzazione
L’ attenzione può essere spontanea, cioè involontaria, che “segue” gli stimoli così come si susseguono attorno all’individuo, e conativa, cioè volontaria, focalizzata su un determinato stimolo. Questo secondo tipo di attenzione è anche chiamata concentrazione. Allenare la concentrazione significa controllare i processi motori di pensiero, significa selezionare gli stimoli su cui focalizzare l’attenzione, escludendo quelli irrilevanti, dirigere l’attenzione sugli stimoli rilevanti e mantenere l’attenzione sugli stimoli rilevanti. Il rilassamento è, probabilmente, tra le tecniche di preparazione mentale, quella più conosciuta ed accettata. L'obiettivo del rilassamento è controllare il livello di attivazione al fine di gestire stati d'ansia e di tensione psicofisica. 
Tra le tecniche più utilizzate si fa riferimento al Training Autogeno di Schultz; è una tecnica di rilassamento basata sulla correlazione tra stati psichici, in particolare le emozioni, e aspetti somatici dell'individuo; e al Rilassamento Progressivo di Jacobson che prevede un rilassamento generale dell'intero corpo ed un rilassamento differenziale col quale si insegna, nei gesti della vita quotidiana, ad utilizzare solo i muscoli impegnati in posture o movimenti, lasciando rilasciati gli altri; e a tecniche di rilassamento di origine orientale. La cosa importante è che, a prescindere dalla tecnica utilizzata, il soggetto deve raggiungere bene l'obiettivo: il controllo del livello di attivazione psicofisica.
La visualizzazione può essere definita la rappresentazione immaginativa del programma e delle singole sequenze motorie da eseguire nei diversi momenti della gara. Tale capacità immaginativa non è uguale in ogni individuo, ma differisce sia per quantità (immagini e sensazioni più o meno vivide e realistiche) che per qualità (c'è chi dimostra di avere una spiccata capacità immaginativa del senso della vista, del tatto, piuttosto che dell'olfatto o dell'udito). Partendo da una base di rilassamento, si guidano gli atleti nella rappresentazione mentale di immagini visive dapprima semplici, ed in seguito complesse; si procede, quindi, all'inserimento progressivo di stimoli immaginativi acustici, tattili, cinestetici, olfattivi, favorendo il progressivo sviluppo di una capacità immaginativa polisensoriale ed immersiva. Le scene immaginate e utilizzate devono essere, oltre che distensive, anche coinvolgenti e realistiche, per poter creare o ricreare nella mente dell'atleta esperienze il più ricche possibili. Vengono dapprima introdotte immagini di scene familiari agli atleti, sia sportive che non sportive; in seguito si passa a sequenze immaginative riguardanti il setting della pratica sportiva. Infine, si propongono specifiche fasi, tecniche o manovre della specialità in oggetto. Il dottor Denis Waitley, ha tratto il processo di visualizzazione dal programma Apollo, e negli anni 80 e 90 l’ha inserito nel programma olimpionico, con il nome di Visual Motor Rehearsal: ad atleti olimpionici è stato chiesto di immaginare di prendere parte alla competizione che li aspettava, dopo di che sono stati collegati ad una macchina di Biofeedback. (Con il biofeedback, una certa funzione corporea come la tensione muscolare o la temperatura cutanea viene monitorata con l'uso di elettrodi o di trasduttori applicati sulla pelle del paziente. I segnali captati vengono amplificati ed usati per gestire segnali acustici o visivi. In questo caso, l’atleta può così adottare strategie di controllo per imparare a controllare volontariamente la funzione monitorata). Mentre gli atleti visualizzavano se stessi nella corsa, si sono attivati gli stessi muscoli che sarebbero entrati in azione se avessero effettivamente partecipato alla gara, e pure nella stessa sequenza. 

Uno degli obiettivi più nobili della preparazione mentale è rendere l'atleta autonomo.
Il miglior augurio, infatti, che si possa fare ad un atleta è di sperimentare, il più a lungo possibile, la gioia ed il piacere di "guidare" il proprio corpo attraverso il pieno utilizzo delle sue attività mentali. 



Dott.ssa Rosalba Ferraro
Psicologa-Psicoterapeuta

mercoledì 1 luglio 2015

L’importanza di relazioni sane.



La relazione con l'altro e il modo in cui viviamo questa relazione sono condizioni fondamentali nella vita di tutti i giorni. Le nostre emozioni più intense, vengono evocate nelle relazioni interpersonali, così come le nostre paure più profonde, come può essere, ad esempio la fobia della perdita di una relazione attaccamento, che consiste nella paura intensa e nel panico di perdere relazioni importanti. Niente come una relazione ci mostra dove siamo bloccati, chiusi, o rigidi, o ancora dove facciamo fatica ad entrare in contatto, dove abbiamo paura, e dove rifiutiamo di accettare la realtà. Nient’altro porta così velocemente alla superficie la nostra ferita relazionale, ovvero quel bisogno di essere accuditi e protetti ignorato da chi doveva prendersi cura di noi; le relazioni umane agiscono continuamente da cartina di tornasole per verificare la profondità della nostra ferita.
Attraverso le relazioni di attaccamento, ma anche attraverso le nostre ferite relazionali, si creano dei modelli relazionali, che includono le nostre convinzioni di base persistenti, come ad esempio “posso fidarmi”, oppure “nessuno si preoccupa di me”, o "non sono amato". Abbiamo sviluppato, attraverso le prime relazioni di attaccamento e le ferite relazionali,  uno “stampo”, a cui cerchiamo di adattare, in qualche misura, le nostre relazioni future. Questi modelli ci fanno, in pratica, da guida nella scelta delle nostre relazioni sane e non sane. 
Nelle relazioni non sane sperimentiamo l’esperienza di essere traditi, rifiutati o abbandonati, provocando alcuni tra i sentimenti più intollerabili, come odio, rabbia, vergogna, solitudine, paura e disperazione.
Quando, invece, si vivono relazioni sane, sperimentiamo sicurezza, protezione, calma e regolazione emotiva, contatto fisico, comunicazione, supporto e un senso di appartenenza. Bowlby nel 1973 affermava, quella che è l'essenza di una sana relazione:“Gli esseri umani di tutte le età si trovano ad essere più felici e ad essere in grado di mettere in pratica i loro talenti al meglio, quando sono sicuri che vi siano una o più persone di fiducia che andranno in loro aiuto in caso di difficoltà”. Sapere che c'è un altro che si prende cura di noi nel momento del bisogno, o in un periodo particolarmente difficile della nostra vita, può farci sentire protetti, accuditi, compresi e, soprattutto, non ci fa sentire soli. Ecco perchè è importante riuscire a costruire e mantenere una relazione sana con l'altro.


Quali sono i principi di una relazione interpersonale sana?

Basarsi sul rispetto reciproco, sull’empatia e sull’uguaglianza.
Si è entrambi capaci di fissare dei limiti chiari con l’altro e di essere assertivi senza essere aggressivi.
Entrambi hanno un equilibrio relativamente sano tra autonomia, dipendenza e interdipendenza.
Vi sentite entrambi al sicuro nel rapporto.
Entrambi avete un senso stabile dell’altra persona, anche quando non è con voi; potete tenerla nel cuore e nelle mente.
Riuscite entrambi a regolare le emozioni che vengono evocate nella relazione.
Entrambi siete in grado di negoziare e risolvere gran parte dei conflitti.
Entrambi avete la fiducia di base.
Solitamente siete entrambi capaci di capire e riflettere sulle motivazioni, e le intenzioni dell’altra persona in modo accurato.
Il rapporto si basa sul negoziare ciò che è meglio per voi due, non sul potere, né sul controllo, il dominio e la sottomissione.
Entrambi potete parlare dei vostri sentimenti e delle vostre esperienze interiori, senza paura del rifiuto e dell’umiliazione.

Sono principi che valgono in linea ideale, ma che vale la pena sforzarsi di ottenere e/o di raggiungere per poter poi vivere in relazioni sane. Vivere relazioni sane con l'altro presuppone una relazione sana con se stesso, per arrivare a questo, è necessario che le nostre ferite relazionali più profonde vengano curate, soprattutto quelle che facendoci da "stampo"  e da guida, ci hanno spinto, spesso, a vivere in relazioni non sane.
Pertanto, curare le ferite relazionali significa conquistare un po’ di libertà e di spontaneità dall'influenza che queste esercitano su di noi; significa potersi fermare e analizzare che cosa sta succedendo quando la nostra ferita viene scatenata, invece di manifestare solamente una reazione emotiva; significa poter osservare e affrontare la propria vulnerabilità; significa, infine, riuscire a costruire una base sicura con l'altro, una relazione sana, alla quale chiedere aiuto e conforto quando viviamo particolari momenti di difficoltà. 

Bibliografia:
S. Boon, K. Steele, O. Van der Hart “La dissociazione traumatica”, 2013 Mimesis Edizioni 

J.Welwood “Amore perfetto, relazioni imperfette”, 2014 Feltrinelli Editore 
Dr.ssa Stefania Alfano
Psicologa Psicoterapeuta