lunedì 21 settembre 2015

Il cibo e le emozioni.



Mangiare è parte integrale e sostanziale del vivere sano. Il cibo e l’atto di mangiare sono associati, dalla maggior parte delle persone, a pensieri e sentimenti positivi e/o negativi. Esiste, ed è ormai ampiamente documentato da diverse ricerche, un forte e stretto legame tra il cibo e le emozioni. 
Venire nutriti da neonati è uno dei primi modi in cui noi sperimentiamo la relazione di accudimento. Mangiare rappresenta il modo in cui ci prendiamo cura di noi stessi e anche il modo in cui ci prendiamo cura degli altri. Il cibo fa parte, in linea generale, con il dare e il ricevere, con il nutrimento e la cura, con le persone e con le relazioni. 

Possono esserci diversi problemi alimentari: abbuffarsi, negare o limitare il cibo, alimentazione emotiva, mantenere una forma corporea che non rientra in un ambito salutare, incapacità di sentire la fame o la sete, difficoltà a scegliere e/o acquistare il cibo, difficoltà nello stabilire delle abitudini alimentari sane e regolari.
Tendo a sottolineare che l’attenzione e la conoscenza relativa ad abitudini alimentari differiscono da persona e persona, da famiglia a famiglia e da cultura a cultura, per questo è di fondamentale importanza rivolgersi a specialisti della salute alimentare se si vuole intraprendere un percorso specifico e personalizzato riguardo alla propria difficoltà con il cibo. I fattori che possono determinare l’insorgere di queste difficoltà con il cibo, possono essere diversi: situazioni familiari problematiche, contesto sociale, eventi fortemente stressanti, convinzione che la persona venga valutata solo in base al suo aspetto fisico, percezione distorta della propria immagine corporea, mancanza di autostima, perfezionismo. 


Resta il fatto che mangiare è una necessità, ci fornisce l’energia e i nutrienti di cui abbiamo bisogno per vivere. Sappiamo tutti, però, che gli eccessi, ovvero mangiare troppo poco o mangiare troppo, possono causare sintomi sia fisici che psicologici, possono riflettere condizioni di stress elevato non gestibili se non attraverso il cibo, portando la persona ad avere, in generale, una immagine del corpo disturbata e una relazione disfunzionale con il cibo. Può comportare delle conseguenze non sempre positive come ad esempio: un forte aumento di peso, un dimagrimento eccessivo, senso di colpa, vergogna, la rinuncia a cercare altre forme di gratificazione.
La relazione con il cibo diventa il mezzo che abbiamo a disposizione per esternare un malessere interiore, e/o per gestire emozioni troppo intense e dolorose. Così che per esempio, abbuffarsi, può diventare, in mancanza di altre possibilità espressive, l’unica risposta indiscriminata a difficoltà affettive ed emotive. Mangiando si possono placare un’aggressività non altrimenti esternata, così come attraverso il cibo si possono attenuare momentaneamente stati d’ansia o sintomi depressivi, il cibo può consolarci da delusioni o da diversi eventi traumatici e di disagio. Ma bisogna fare attenzione a questo meccanismo automatico: ad esempio se sono triste, mangio oppure se sono arrabbiato, non mangio. Ognuno di noi poi trova il proprio modo di usare il cibo per non sentire o non sperimentare le proprie emozioni. Diversi autori evidenziano, attraverso molte ricerche, come alla base di una relazione disfunzionale con il cibo ci sia l’evidente difficoltà della regolazione affettiva-emotiva.

Onno Van der Hart et al. (2013) nel suo capitolo Sviluppare abitudini alimentari sane, descrive alcune proposte per risolvere le difficoltà relative ad un’alimentazione sana, di seguito riporto alcuni dei suoi suggerimenti:
- Imparare a riconoscere e a comprendere le proprie difficoltà rispetto al cibo e all’atto di mangiare. Si potrebbe fare una lista delle eventuali difficoltà, e segnare da dove si vuole cominciare, ricordandosi di iniziare dai più facili prima di passare a quelli più complessi.
- Nota ciò che succede quando pensi ai tuoi problemi di alimentazione, come ad esempio avere difficoltà a fare la spesa o mangiare in maniera irregolare. Di quali emozioni e sensazioni sei consapevole?
- Se si hanno preferenze o avversioni marcate per alcuni cibi, si può imparare ad essere flessibili; si può, ad esempio, evitare temporaneamente un certo cibo oppure si può acconsentire ad un cibo che sentite avverso, ma con moderazione. 
- Può essere utile creare, insieme ad uno specialista, un diario alimentare.
- Gli schemi di alimentazione hanno spesso uno scopo emotivo sottostante: si può mangiare quando si è stanchi, annoiati, arrabbiati, e depressi. Quando si ha fame allora, ma non si ha bisogno di mangiare, nota quali sono le emozioni o i pensieri. Ci sono dei sentimenti o delle situazioni che potresti voler evitare mangiando? 
- Abbuffarsi è di solito un modo di regolare sentimenti insopportabili. Con l’aiuto di uno specialista si può iniziare a capire di più su alcune parti che entrano in gioco nel momento dell’abbuffata, e si possono cercare delle alternative adatte.
- Se si hanno difficoltà alimentari seri, bisogna essere onesti con se stessi e rivolgersi a specialisti. 


I problemi dell’alimentazione, come molti altri problemi, per essere risolti, possono richiedere del tempo. È importante, dunque, la motivazione al cambiamento, essere pazienti ed empatici verso se stessi, e concedersi di essere contenti di fare piccoli passi per volta. Essere consapevoli delle emozioni che si sentono in un dato momento, è il primo passo verso il cambiamento della  relazione che si ha con il cibo, e per affrontare la difficoltà che abbiamo con esso. Spesso, infatti, le diete falliscono perché sono basate sulla forza di volontà ma non su un percorso di conoscenza di se stessi e di che tipo di relazione ho con il cibo. 

Il cibo e le emozioni sono parti integranti e indispensabili della nostra vita, impariamo a gestire e a vivere le emozioni in maniera integrata ed equilibrata attraverso un‘ attenta consapevolezza di quei meccanismi che mettiamo in moto nella relazione che abbiamo con il cibo. La consapevolezza ci aiuta a renderci conto dei nostri comportamenti, a riconoscere gli automatismi, le azioni reiterate, inconsapevoli e impulsive che noi mettiamo in atto. Impariamo, dunque, a riconoscere i nostri stati interni, ad ascoltare e conoscere il nostro corpo, e soprattutto ad entrare contatto con le nostre emozioni e con i nostri bisogni, e a riconoscere il cibo come bisogno di nutrimento e non come il mezzo che abbiamo a portata di mano per evitare di ascoltare e vivere le nostre emozioni. 


Dr.ssa Stefania Alfano
Psicologa-Psicoterapeuta

giovedì 3 settembre 2015

Nutrizione & Sport

Gli sportivi amatoriali sanno davvero scegliere la giusta alimentazione? Vediamolo insieme.


L'acquisizione di una buona condizione fisica e il raggiungimento della miglior performance sportiva spesso non va di pari passo col benessere del nostro organismo. Si ricorre, infatti, a regimi alimentari fortemente restrittivi e punitivi come diete lampo, diete fai da te o all'utilizzo di pasti sostitutivi magari abbinati ad attività fisica regolare senza pensare che il mangiarein modo corretto è ancora più importante per chi pratica qualsiasi tipo di sport rispetto al sedentario. Per migliorare la propria condizione. Per migliorare la propria condizione di benessere è necessario un processo "correttivo" graduale. La soluzione è quella di adottare un comportamento alimentare equilibrato giorno per giorno, senza focalizzarsi su obiettivi di breve termine difficili e rischiosi per la nostra salute. Ci si deve sforzar di guardare oltre e cioè di darci come obiettivo ultimo l'apprendimento di uno stile di vita e alimentare corretto. Per lo sportivo, in particolare, sarà utile conoscere quali sono gli alimenti funzionali alla sua attività e in quali quantità, modalità e porzioni assumerli. Una dieta variata, composta dai cibi normali e freschi scelti tra i diversi gruppi alimentari, fornisce un adeguato apporto di tutti i nutrienti comprese vitamine e sali minerali. Ecco alcuni punti fondamentali per ottenere il massimo dalle performance sportive:
  • mai saltare pasti o spuntini
  • mai fare attività fisica a stomaco vuoto
  • non dimenticarsi di bere durante l'attività fisica
  • prima dell'attività fisica:
    _mattutina: colazione con fette biscottate o fette di pane integrali con un velo di marmellata (senza zuccheri aggiunti) tralasciando latte e derivati e magari aggiungendo un frutto fresco di stagione;
    _pomeridiana o serale: (2-2.30 ore prima): mangiare un piatto di pasta condito con pomodoro e 1cucchiaio di olio extra vergine a crudo e non carne, prosciutto, pesce o formaggio che allungherebbero i tempi della digestione;
    _lontano dai pasti: uno spuntino a base di pane e marmellata o una barretta o thé con biscotti secchi (meglio non frollini);
Prediligere inoltre:
  • latte parzialmente scremato al posto di latte intero;
  • yogurt magro rispetto a quello intero;
  • marmellata biologica senza zucchero aggiunto o light al posto di quella normale;
  • alimenti integrali e non raffinati (pane, pasta, derivati) i quali donano più sazietà e, grazie alle fibre,innalzano meno la glicemia;
  • pane comune normale o integrale senza grassi aggiunti al posto del pane condito;
  • spremuta o succhi senza zuccheri aggiunti al posto di succo con zucchero.


E' molto importante sottolineare come queste indicazioni non sono assolutamente personalizzate e non possono in nessun caso costituire un programma dietetico, ma sono esclusivamente consigli generici.

Dott.ssa Guerrera Mariacarmela
Biologa Nutrizionista

Lo sviluppo dell'empatia

Generalmente definiamo empatia, la capacità di immedesimarsi e comprendere le emozioni di un’altra persona. La parola deriva dal greco “εμπαθεία” (empatéia, composta da en-, "dentro", e pathos, "sofferenza o sentimento"), significa, appunto, “sentire dentro”.

Il modello di sviluppo di Martin Hoffman è considerato uno dei più esaustivi modelli di sviluppo dell’empatia. L'autore articola l’empatia in diverse capacità e competenze che, con il procedere dello sviluppo, diventano sempre più mature e sofisticate. In questo modello, la componente affettiva e la componente cognitiva interagiscono costantemente, e, in ciascuno stadio evolutivo, includono la motivazione ad agire positivamente in modo da alleviare il disagio altrui.

I primi segnali di empatia, appaiono sorprendentemente presto. Fin dalle primissime ore di vita sono osservabili nei neonati delle reazioni di distress empatico globale. Nei primi mesi di vita, i neonati non sono in grado di percepire se stessi e gli altri come entità distinte; percepiscono la sofferenza di qualcuno, come se fosse una propria l’emozione. L’empatia, in tale fase, si connota come una reazione affettiva, automatica e involontaria, che prende il nome di contagio emotivo ( ad esempio il pianto mostrato dai neonati in risposta al pianto di altri neonati).

Intorno al primo anno di vita, i bambini cominciano a percepire una prima distinzione tra sé e l’altro, e ad attribuire alle espressioni facciali un particolare significato. In questa fase, definita fase di distress empatico egocentrico, i bambini mimano le emozioni provate dall’altro, ma sono azioni finalizzati ad attenuare il proprio stato di angoscia, adottando condotte auto consolatorie come ad esempio succhiarsi il pollice o accarezzarsi.
Dal secondo anno, i bambini  sono consapevoli dei vissuti degli altri e sono, inoltre, in grado di identificare specifiche situazioni che possono provocare specifici vissuti emotivi nell’altro. Hoffman parla di sofferenza empatica quasi-egocentrica, la quale si caratterizza con l’aiutare l’altro. E’ questo il caso di un bambino di 2 anni e mezzo, che nel momento in cui porge un giocattolo ad un compagno che piange, sembrerebbe dimostrarsi consapevole che egli sta provando un’emozione negativa. Il bambino ha imparato ad attivare comportamenti che riguardano il contatto fisico: carezze, baci, abbracci, aiuto fisico, ed altri comportamenti tesi ad aiutare e consolare l’altro.

Intorno al terzo anno di vita si sviluppa in modo più completo la capacità di oggettivazione di sé, e il bambino acquisisce la consapevolezza che gli altri hanno pensieri e sentimenti diversi dai propri. E' la fase della vera empatia per lo stato d’animo di un’altra persona. In altre parole, la situazione che l'altro vive, sarà percepita dal bambino come se la vivesse in prima persona.
Dai  5-6 anni in poi, con lo sviluppo di una maggiore competenza linguistica, il bambino interagisce con l’altro in modo più appropriato; mostrano una capacità di discutere le proprie e le altrui emozioni (tale abilità migliora considerevolmente nel corso dello suo sviluppo), e, inoltre, grazie alla capacità di decentramento, sono più abili nell'assumere il ruolo dell'altro, e si rendono conto che comunicare i propri sentimenti ad un’altra persona può farli sentire meglio o può ferire l’altra persona.
L’ultima fase, è definita distress empatico oltre la situazione. Dai 9 anni, i bambini, sviluppano un senso di se stabile, e realizzano che gli altri hanno una propria identità che influenza e può influenzare il comportamento e la risposta empatica. Intorno ai 13 anni, si raggiunge il pieno sviluppo dei meccanismi cognitivi implicati nel processo dell’empatia.  

L’empatia, dunque, è una delle condizioni relazionali senza la quale noi non possiamo sentire, agire, ed essere, e senza la quale noi non potremmo avere la sensazione di fiducia in noi stessi e negli altri, e, ancora, senza la quale noi non potremmo avere sostegno e aiuto nei momenti di difficoltà. Educhiamoci a parlare, con i nostri bambini, delle emozioni, a parlare di ciò fa star male loro e gli altri; questo è un modo efficace per incrementare nei bambini le capacità empatiche, l’altruismo e le competenze prosociali. 

Dott.ssa Stefania Alfano
Psicologa Psicoterapeuta