domenica 29 novembre 2015

Lo sviluppo del linguaggio.

Il linguaggio permette almeno due importanti funzioni: quella comunicativa grazie alla quale siamo in grado di trasmettere idee e conoscenze, e quella simbolica e di astrazione. La capacità di astrarre e di utilizzare simboli, è talmente importante per lo sviluppo e l’impiego del nostro pensiero, che il rapporto tra linguaggio e pensiero è stato un tema molto discusso in psicologia. Anche per il linguaggio, ci sono varie teorie a sostegno della sua nascita ed evoluzione.

I bambini, fin dalla nascita sono predisposti ad apprendere il linguaggio, e sembrano attribuire, sin dal momento in cui vengono alla luce, un valore speciale ai suoni del linguaggio. La fase di apprendimento inizia a tre mesi, con la semplice percezione dei suoni e il riconoscimento della provenienza, arrivando, poi, ad acquisire la grammatica di base intorno ai 5 anni di età. Tutto ciò è agevolato dalla rapida evoluzione dell’emisfero cerebrale sinistro, a partire dalla 35° settimana di vita, deputato all’elaborazione del linguaggio. Neonati di 3 giorni, mostrano di preferire il linguaggio a qualsiasi altro suono. A 6 mesi, i bambini riescono a cogliere le differenze tra due suoni diversi, in una qualunque delle lingue parlate al mondo; dopo i 6 mesi sono in grado di discriminare tra i suoni che appartengono alla loro lingua madre ed un’altra lingua.

Intorno ai 2 mesi incomincia a produrre una nuova categoria di suoni più simile al linguaggio, il “cooing”, che consiste in una serie di vocali ripetute. Tra i 4 e i 6 mesi al cooing subentra la lallazione ovvero la “ripetizione di sillabe uguali, con ritmo respiratorio uguale a quello del linguaggio articolato, senza contenuto designativo specifico, senza alcuna finalità cosciente" (Stern).  E successivamente il balbettio, cioè la ripetizione di consonanti e vocali abbinate. A 8 mesi il balbettio comincia ad essere composto da suoni che imitano nel ritmo e nel tono, la lingua che i bambini sentono intorno a sé. Intorno ai 10 mesi, i balbettii non sono più così casuali, ma sono legati a contesti specifici. Questi suoni precursori delle parole sono definiti come “vocaboli contestuali”, per distinguerli dalle vere parole che hanno funzione simbolica.

Durante il primo anno di vita prendono forma nel bambino i primi mezzi di comunicazione, caratterizzati, in questa fase, da tentativi di imitazione di suoni proposti dall’adulto. Proprio nell’ecolalia (ripetizione di suoni), secondo Piaget, sarebbe da ricercare la principale forma di acquisizione del linguaggio. Queste melodie ritmiche diverse, sono utilizzate per indicare intenzioni, e desideri differenti.

Tra il primo e il secondo anno di vita, il bambino affina le proprie capacità, e inizia a produrre le prime espressioni che possano anche essere costituite da una sola parola. Queste espressioni vengono indicate con il termine di “olofrasi”.
Successivamente il bambino comincia a legare insieme due, tre, quattro parole per formare frasi. In questa fase, le frasi non sono né corrette né complete, il linguaggio del bambino, in questa fase, viene definito “linguaggio telegrafico”. Dai 2 ai 3 anni i bambini possiedono 300 vocaboli. È questo il periodo dei perchè. Il bambino assimila le forme sintattiche e grammaticali attraverso una continua richiesta di rispondere a specifiche domande, questo, serve anche per arricchire il suo lessico e il suo vocabolario. Da questa età in poi, il bambino continua ad arricchire il suo vocabolario e a perfezionare le sue conoscenze grammaticali, fino a che intorno ai 5 anni diviene padrone di strutture assai simili a quelle di adulti e controlla un vocabolario di circa duemila parole.

Con l'ingresso nella scuola primaria si incrementano le funzioni interattive del bambino, si perfezionano le modalità con cui si scambiano le informazioni e si formulano le domande. Occorre sottolineare che ogni bambino ha i suoi tempi, e che cause ambientali e genetiche possono rallentare lo sviluppo del linguaggio. E' importante che gli adulti, per favorire una maggior competenza linguistica da parte del bambino, prestino ascolto  al bambino quando si rivolge a noi; instaurare una conversazione con il bambino; incoraggiare e rinforzare i tentativi del bambino di dire nuove parole; lasciare che il bambino ci racconti o inventi storie per noilodare il bambino quando parla dei suoi sentimenti, dei suoi pensieri o delle sue paure; raccontare delle filastrocche o cantare delle canzoni insieme con il bambino; leggere al bambino lunghe storie. 

giovedì 19 novembre 2015

QUESTIONI DI BIOETICA: IL CONSENSO INFORMATO E LO STATO VEGETATIVO C.D. PERSISTENTE

Negli ultimi anni, anche a seguito di drammatiche vicende di cronaca, come il caso Welby o il più recente caso Nuvoli, si è posto sempre in maniera più frequente il problema delle questioni di fine vita ed in particolare della possibilità di sospendere la nutrizione ed idratazione artificiali nei soggetti in stato di irreversibile perdita di coscienza.
La questione si pone affrontando un duplice quesito:
1) se la nutrizione ed idratazione artificiale debba considerarsi terapia o sostentamento vitale;
2) nella possibilità di introdurre nel nostro sistema il c.d. testamento biologico, in termini giuridici dichiarazione anticipata di trattamento, attraverso il quale il paziente esprime in un momento di lucidità mentale il suo consenso informato in maniera anticipata rispetto all’insorgere di una probabile malattia, negando o prestando il proprio consenso al trattamento sanitario.

Entrambi i quesiti pongono il loro fondamento sulla validità del c.d. consenso informato. Questo non è altro che una manifestazione di volontà del paziente, sorretta da una esaustiva informazione circa il trattamento terapeutico da farsi somministrare, attraverso la quale il soggetto sceglie di sottoporsi o di sottrarsi al trattamento consigliato. In mancanza dell’acquisizione del consenso, l’attività del medico risulta illegittima; così come un consenso presente ma invalido  porta alla illegittimità dell’attività del medico.
Tra i requisiti di validità del consenso informato, quello che interessa alle questioni di fine vita è quello del carattere ATTUALE E PERSISTENTE, in base al quale il consenso deve presiedere tutte le fasi del trattamento sanitario. Esso deve infatti essere prestato prima della sottoposizione al trattamento, ma deve tuttavia permanere per tutta la sua durata: si tratta infatti di un atto revocabile in ogni momento dal paziente.
Se, dunque, sorgono dei dubbi sull’applicazione di tale istituto nel caso di testamento biologico, ove per definizione la manifestazione di volontà viene anticipata all’insorgere di una probabile malattia degenerativa, nulla quaestio nel caso in cui un paziente in condizioni di lucidità mentale e una volta acquisite tutte le informazioni  del caso, scelga di non sottoporsi ad un trattamento sanitario. Il problema però sorge, anche in questo secondo caso, quando il paziente venga sottoposto  alla nutrizione o l’idratazione artificiale perché in tal caso si incontrano delle difficoltà nell’inquadrare giuridicamente tale attività.
Analizzando il caso appena esposto, nell’ipotesi in cui la nutrizione artificiale venisse considerata come terapia, la sospensione dell’alimentazione e della idratazione (detta anche accanimento terapeutico), troverebbe la tutela giuridica nell’art. 32 Cost., oltre che nel Codice di deontologia medica, dopo aver accertato in concreto la volontà espressa. Viceversa, qualora si attribuisse alla nutrizione artificiale il valore di sostentamento vitale, la sospensione rientrerebbe in una forma di eutanasia, in quanto il paziente non morirebbe a causa della sospensione della cura rifiutata dallo stesso paziente, ma per l’omissione di una forma di sostegno.

A livello internazionale, dal punto di vista medico e bioetico, l’orientamento prevalente è quello di considerare la sospensione della nutrizione ed idratazione artificiale come sospensione di una terapia, dunque come un trattamento medico liberamente rifiutabile, mentre in Italia il Comitato nazionale di bioetica si è espresso nel 2005 in senso contrario.  I contrastanti orientamenti hanno fatto sì che anche in Parlamento si aprisse un dibattito sulla vicenda in esame. A tal proposito preme indicare la proposta di legge sulle “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica di consenso informato e di dichiarazione anticipata di trattamento (DAT)”, i cui lavori sono fermi dal 2011 in Senato per la seconda lettura. Riportiamo quanto descritto nel corso dei lavori alle Camere: “ll progetto di legge sancisce preliminarmente i principi della tutela della vita umana e della dignità della persona, del divieto dell’eutanasia e dell’accanimento terapeutico, e del consenso informato quale presupposto di ogni trattamento sanitario. Provvede quindi alla disciplina, con una norma di carattere generale, del consenso informato, sempre revocabile e preceduto da una corretta informazione medica, e delinea le caratteristiche e i principi essenziali della dichiarazione anticipata di trattamento. Tale dichiarazione consiste nella manifestazione di volontà con cui il dichiarante si esprime, con determinate formalità, in merito ai trattamenti sanitari in previsione di un'eventuale futura perdita della propria capacità di intendere e di volere. Essa, tuttavia, non può riguardare l’alimentazione e l'idratazione, che devono essere mantenute fino al termine della vita, salvo che non abbiano più alcuna efficacia nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo.” La proposta di legge mira, dunque, a vietare quella che viene definita eutanasia, avallando l’ipotesi di chi attribuisce alla nutrizione artificiale il valore di sostentamento vitale.

Avv. Tiziana Alfano

martedì 17 novembre 2015

Cioccolato: conosciamolo meglio !

La convinzione di molti è che durante una dieta bisogna rinunciare completamente a dolci, pizza e cioccolato! Niente di più falso! Qualsiasi alimento può essere assunto nelle giuste proporzioni, anche quando si segue un regime dietetico.
In particolare, non è assolutamente da escludere dalla propria alimentazione il cioccolato, soprattutto se fondente, perchè ricco di qualità nutrizionali da non sottovalutare.
Il cioccolato fondente è considerato l’antidepressivo non farmacologico per eccellenza.
Grazie ad un mix di sostanze presenti nel cacao, il cioccolato fondente è in grado di agire sul nostro stato umorale, contiene un insieme di sostanze che incide sostanzialmente sull’equilibrio chimico del cervello.

A tal proposito vengono stimolati diversi neurotrasmettitori come la serotonina, che svolge un’azione importante nella regolazione del sonno, dell’umore, della temperatura corporea nonché dell’appetito; la feniletilamina è anch’essa un neurotrasmettitore che riproduce quello stato di benessere che proviamo quando siamo innamorati, forse il miglior rimedio contro la depressione; le metilxantine (caffeina, teobromina e teofillina) possiedono proprietà stimolanti che sollevano l’umore e aumentano la capacità di concentrazione;
l’anandamide, un acido grasso già presente nel corpo umano, in grado di stimolare le percezioni sensoriali e provoca una sensazione di benessere e felicità.
Infine, tra le proprietà benefiche del cioccolato c’è quella di stimolare il cervello a produrre endorfine che innalzano il livello dell’umore e diminuiscono quello del dolore, producono una generale sensazione di benessere e di felicità, stimolano il rilascio degli ormoni sessuali.
Il cioccolato fondente è ricco di antiossidanti; è anche l’alleato migliore del cuore e dell’attività vascolare, grazie alla presenza di flavonoidi, potenti antiossidanti che svolgono un ruolo fondamentale contro le malattie cardiovascolari, contrastano l’indurimento delle arterie e dei capillari, inoltre contribuiscono a contrastare le infiammazioni e la formazione di neoplasie. In più agisce anche sulla pressione sanguigna, grazie alla presenza massiccia di polifenoli, altra categoria di potenti antiossidanti; il cacao contrasta l’ipertensione, abbassando soprattutto i valori massimi, preservando l’uomo dalle malattie cardiovascolari.

Il cioccolato fondente non contiene colesterolo, essendo ricco di antiossidanti, assunto quotidianamente nelle giuste quantità (senza esagerare), è in grado di abbassare il colesterolo cattivo (LDL) e alzare quello buono (HDL). Tutti questi benefici riguardano solo il cioccolato fondente in quanto il cioccolato al latte è più calorico di quello fondente, inoltre ha anche più grassi (tra i quali una piccola parte di colesterolo). Rispetto al fondente ha poi una minore quantità di flavonoidi ossia gli antiossidanti in grado di neutralizzare i radicali liberi in eccesso nell’organismo. Inoltre, proprio l’aggiunta del latte al cioccolato riduce l’assorbimento delle sostanze antiossidanti del cacao. E’ per questo motivo che si consiglia soprattutto il cioccolato nero. Va detto però che il cioccolato al latte, come il fondente, contiene fosforo, vitamine, e soprattutto, ha il vantaggio di apportare più calcio che arriva a 262 mg per 100g in confronto ai 51 mg per 100g del fondente.
Per quest’ultima proprietà è spesso indicato, senza eccedere nelle quantità, nelle merende dei bambini. L'unico lato negativo di questo alimento: crea dipendenza!!!


Dott.ssa Guerrera Mariacarmela
Biologa Nutrizionista

IL MOBBING



“Il Mobbing è una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Il mobbizzato si trova nell'impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell'umore che possono portare anche a invalidità psicofisica permanente” (H. Ege, La valutazione peritale del Danno da Mobbing, Giuffré Milano 2002).

Il termine mobbing identifica un insieme di comportamenti violenti, sia di natura fisica che verbale, messi in atto da persona e/o un gruppo di persone, verso altri soggetti.
La vittima di queste vere e proprie persecuzioni si sente emarginata, calunniata, criticata: gli vengono affidati compiti dequalificanti, o viene spostata da un ufficio all'altro, o viene sistematicamente messa in ridicolo di fronte a clienti o superiori. Lo scopo di tali comportamenti può essere vario, ma sempre distruttivo: eliminare una persona divenuta in qualche modo “scomoda”, inducendola alle dimissioni volontarie o provocandone il licenziamento. 

Il termine venne coniato agli inizi degli anni settanta del XX secolo dall'etologo Konrad Lorenz, per descrivere un particolare comportamento aggressivo tra individui della stessa specie, con l'obbiettivo di escludere un membro del gruppo. Negli anni ’80 lo psicologo svedese Heinz Leymann, definì il mobbing: “un terrore psicologico che consiste in una comunicazione ostile e contraria ai principi etici, perpetrata in modo sistematico da una o più persone principalmente contro un singolo individuo che viene per questo spinto in una posizione di impotenza e impossibilità di difesa, e qui costretto a restare da continue attività ostili”. In Italia, si inizia a parlare di mobbing  intorno gli anni '90, lo psicologo del lavoro Haraid Ege descrive il fenomeno attraverso un modello a 6 fasi e definendo il mobbing come "una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro, esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte dei colleghi o superiori" attuati in modo ripetitivo e protratti nel tempo per un periodo di almeno sei mesi. Perché sussista il mobbing, non è sufficiente un singolo atto, ma è necessaria una pluralità di situazioni.

Subire violenza interpersonale ha un forte potenziale traumatico, che ampliando le preesistenti fragilità della vittima del mobbing, mina il suo assetto cognitivo-emotivo. I lavoratori vittime di mobbing mostrano alterazioni dell’equilibrio socio-emotivo (ansia, depressione, ossessioni, attacchi di panico, anestesia emozionale), alterazioni dell’equilibrio psicofisiologico (cefalea, vertigini, disturbi gastrointestinali, disturbi del sonno e della sessualità) disturbi a livello comportamentale (modificazioni del comportamento alimentare, reazioni autoaggressive ed eteroaggressive, passività), problemi cardiaci ( infarto miocardico, battito cardiaco accelerato), problemi al sistema immunitario (calo delle difese immunitarie), problemi dermatologici (dermatiti  psoriasi disturbi cutanei).
Le conseguenze del mobbing producono difficoltà di adattamento del soggetto alla situazione lavorativa, e una drastica riduzione dell’autostima, e la sensazione di incapacità nel gestire la realtà quotidiana. La vita della vittima di mobbing, nei casi più gravi, si trova così ad essere compromessa, con separazioni, divorzi e un progressivo ritiro anche dalla sfera sociale.
L’impatto di questo tipo di trauma sconvolge il proprio senso dell’identità. Si sviluppa un senso d’identità basato su percezioni di sé come impotente, colpevole, non amabile e non capace; si percepisce gli altri come pericolosi, inaffidabili, imprevedibili e, in generale si percepisce il mondo come ingiusto, caotico, ingestibile. Le aree del senso d’identità destabilizzate dall’evento, riguardano il sentirsi al sicuro, la fiducia in se stessi e negli altri, il sentirsi capaci di far fronte alle situazioni, la stima di sé, e l’intimità. 

“Qualsiasi interruzione del proprio senso di continuità e unicità connesso alla percezione di sé si accompagna invariabilmente alla perdita del senso della realtà e rappresenta l’esperienza emotiva più disgregante e devastante che un essere umano possa provare nel corso della vita”, come sottolinea Vittorio Guidano in "La complessità del Sé".

Per contrastare questo fenomeno in continua crescita, in Italia come in Europa, occorre una prevenzione a più livelli e un costante monitoraggio, in modo da prendere in tempo situazioni che potrebbero danneggiare la persona e anche l’azienda. Per affrontare il mobbing è necessario rivolgersi a professionisti in grado di gestire in modo multidisciplinare tutti gli aspetti legati a tale fenomeno: psicologici, medici, legali.

Dr.ssa Stefania Alfano
Psicologa Psicoterapeuta

domenica 8 novembre 2015

Il grounding: avere i piedi per terra.

Il radicamento o grounding, letteralmente significa avere i piedi ben piantati per terra. 
Il grounding fu ideato, negli anni Sessanta, da Alexander Lowen, psicanalista americano, ideatore della Analisi Bioenergetica, e viene usato per indicare il radicamento alla terra, al proprio corpo, alla propria vita e alla realtà in cui si vive. 
Lowen affermava: "Noi esseri umani siamo come gli alberi, radicati al suolo con un'estremità, protesi verso il cielo con l'altra, e tanto più possiamo protenderci quanto più forti sono le nostre radici terrene. Se sradichiamo un albero, le foglie muoiono; se sradichiamo una persona, la sua spiritualità diventa un'astrazione senza vita".
Lowen ci pone un importante quesito: riusciamo a restare radicalmente in contatto con noi stessi? I diversi stati che riguardano i livelli più alti del corpo se portati all'eccesso, possono sradicarci dalla nostra posizione e farci disorientare.

Il radicamento o grounding vuol dire sentirsi radicati nella propria autenticità e verità, accettando se stessi e i propri vissuti. Il "grounding" implica che una persona si "lasci scendere", che abbassi il suo centro di gravità, che si senta più vicina alla terra. Il risultato più immediato è di aumentare il senso di sicurezza. La persona sente la terra sotto di sé e i piedi che vi poggiano sopra. 

Sviluppando il grounding, si diventa più consapevoli, più capaci di esprimersi e si ha più padronanza di sé; quando si ha una propria "posizione", sappiamo dove siamo e chi siamo. Quando ha i piedi per terra, una persona ha la sua posizione, cioè, è "qualcuno". Il grounding, rappresenta il nostro contatto con le realtà di base, vuol dire essere in contatto con la realtà, fisicamente ed emotivamente: entrare in relazione con le sensazioni del corpo e con l'ambiente. In altre parole, si tratta di essere presenti nel qui e ora, con i piedi ben piantati per terra, in contatto con l’ambiente e in contatto con il proprio corpo, con le proprie sensazioni ed emozioni, con la percezione del proprio Sé. Queste qualità mancano nella persona che vive "tra le nuvole" o tutta nella testa, anziché nei piedi.
Praticando il "grounding" si stimola il più profondo sentimento di esistere, di auto-fiducia, di contare su Se stessi, favorendo un modo per relazionarsi all'altro senza paura di perdersi e di lasciarsi
andare.


Fonte: Alexander Lowen - Leslie Lowen
Dr.ssa Stefania Alfano
Psicologa Psicoterapeuta