sabato 18 luglio 2015

La preparazione mentale dell’atleta. Alcune tecniche di mental training.



Spesso accade che alla domanda “il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto?”, una buona parte di noi tenda a concentrarsi sul negativo ("bicchiere mezzo vuoto"). Succede che ciò che inizialmente, sembra essere solo una predisposizione, e diventa poi inevitabilmente un'abitudine di pensiero. Tale modalità di pensiero, regola le nostre operazioni mentali, il che significa che, ad esempio, condizioni come la paura, la preoccupazione, l’insoddisfazione, nascono da pensieri del tipo…’io sono inadeguato, io non riuscirò mai a vincere questa gara’, diventando, poi fatti. Il pensiero positivo, quindi, prima ancora di essere una tecnica di preparazione mentale, è una filosofia di vita.

Per poter effettuare Tecniche di mental training, è importante che lo psicologo sportivo conosca bene l'atleta in modo da sapere quale sia la sua predisposizione iniziale "a pensare positivo", bisogna capire come vive gli eventi sia positivi che negativi, e bisogna anche capire cosa lui attribuisca alla vittoria o alla perdita di una partita. Bravura, fortuna, fatalità?  Da questi elementi, è possibile valutare  anche l'autostima dell'atleta. Ecco perché è necessario aiutare l'atleta a cercare, inizialmente insieme, ciò che lui reputa positivo per se stesso. E' un allenamento continuo: spostare il pensiero negativo verso quello positivo. Mano a mano, ciò che sembra uno sforzo diventa, poi, naturale. L'atleta scopre che ha imparato a pensare positivo. E siccome il pensiero positivo è "contagioso", senza rendersene pienamente conto, l'atleta comincia ad insegnare a pensare in positivo a chi sta accanto a lui. Questa è la migliore prova che la tecnica è stata compresa, accettata e praticata.
Tra le varie tecniche: la concentrazione, le tecniche di rilassamento e la visualizzazione
L’ attenzione può essere spontanea, cioè involontaria, che “segue” gli stimoli così come si susseguono attorno all’individuo, e conativa, cioè volontaria, focalizzata su un determinato stimolo. Questo secondo tipo di attenzione è anche chiamata concentrazione. Allenare la concentrazione significa controllare i processi motori di pensiero, significa selezionare gli stimoli su cui focalizzare l’attenzione, escludendo quelli irrilevanti, dirigere l’attenzione sugli stimoli rilevanti e mantenere l’attenzione sugli stimoli rilevanti. Il rilassamento è, probabilmente, tra le tecniche di preparazione mentale, quella più conosciuta ed accettata. L'obiettivo del rilassamento è controllare il livello di attivazione al fine di gestire stati d'ansia e di tensione psicofisica. 
Tra le tecniche più utilizzate si fa riferimento al Training Autogeno di Schultz; è una tecnica di rilassamento basata sulla correlazione tra stati psichici, in particolare le emozioni, e aspetti somatici dell'individuo; e al Rilassamento Progressivo di Jacobson che prevede un rilassamento generale dell'intero corpo ed un rilassamento differenziale col quale si insegna, nei gesti della vita quotidiana, ad utilizzare solo i muscoli impegnati in posture o movimenti, lasciando rilasciati gli altri; e a tecniche di rilassamento di origine orientale. La cosa importante è che, a prescindere dalla tecnica utilizzata, il soggetto deve raggiungere bene l'obiettivo: il controllo del livello di attivazione psicofisica.
La visualizzazione può essere definita la rappresentazione immaginativa del programma e delle singole sequenze motorie da eseguire nei diversi momenti della gara. Tale capacità immaginativa non è uguale in ogni individuo, ma differisce sia per quantità (immagini e sensazioni più o meno vivide e realistiche) che per qualità (c'è chi dimostra di avere una spiccata capacità immaginativa del senso della vista, del tatto, piuttosto che dell'olfatto o dell'udito). Partendo da una base di rilassamento, si guidano gli atleti nella rappresentazione mentale di immagini visive dapprima semplici, ed in seguito complesse; si procede, quindi, all'inserimento progressivo di stimoli immaginativi acustici, tattili, cinestetici, olfattivi, favorendo il progressivo sviluppo di una capacità immaginativa polisensoriale ed immersiva. Le scene immaginate e utilizzate devono essere, oltre che distensive, anche coinvolgenti e realistiche, per poter creare o ricreare nella mente dell'atleta esperienze il più ricche possibili. Vengono dapprima introdotte immagini di scene familiari agli atleti, sia sportive che non sportive; in seguito si passa a sequenze immaginative riguardanti il setting della pratica sportiva. Infine, si propongono specifiche fasi, tecniche o manovre della specialità in oggetto. Il dottor Denis Waitley, ha tratto il processo di visualizzazione dal programma Apollo, e negli anni 80 e 90 l’ha inserito nel programma olimpionico, con il nome di Visual Motor Rehearsal: ad atleti olimpionici è stato chiesto di immaginare di prendere parte alla competizione che li aspettava, dopo di che sono stati collegati ad una macchina di Biofeedback. (Con il biofeedback, una certa funzione corporea come la tensione muscolare o la temperatura cutanea viene monitorata con l'uso di elettrodi o di trasduttori applicati sulla pelle del paziente. I segnali captati vengono amplificati ed usati per gestire segnali acustici o visivi. In questo caso, l’atleta può così adottare strategie di controllo per imparare a controllare volontariamente la funzione monitorata). Mentre gli atleti visualizzavano se stessi nella corsa, si sono attivati gli stessi muscoli che sarebbero entrati in azione se avessero effettivamente partecipato alla gara, e pure nella stessa sequenza. 

Uno degli obiettivi più nobili della preparazione mentale è rendere l'atleta autonomo.
Il miglior augurio, infatti, che si possa fare ad un atleta è di sperimentare, il più a lungo possibile, la gioia ed il piacere di "guidare" il proprio corpo attraverso il pieno utilizzo delle sue attività mentali. 



Dott.ssa Rosalba Ferraro
Psicologa-Psicoterapeuta

mercoledì 1 luglio 2015

L’importanza di relazioni sane.



La relazione con l'altro e il modo in cui viviamo questa relazione sono condizioni fondamentali nella vita di tutti i giorni. Le nostre emozioni più intense, vengono evocate nelle relazioni interpersonali, così come le nostre paure più profonde, come può essere, ad esempio la fobia della perdita di una relazione attaccamento, che consiste nella paura intensa e nel panico di perdere relazioni importanti. Niente come una relazione ci mostra dove siamo bloccati, chiusi, o rigidi, o ancora dove facciamo fatica ad entrare in contatto, dove abbiamo paura, e dove rifiutiamo di accettare la realtà. Nient’altro porta così velocemente alla superficie la nostra ferita relazionale, ovvero quel bisogno di essere accuditi e protetti ignorato da chi doveva prendersi cura di noi; le relazioni umane agiscono continuamente da cartina di tornasole per verificare la profondità della nostra ferita.
Attraverso le relazioni di attaccamento, ma anche attraverso le nostre ferite relazionali, si creano dei modelli relazionali, che includono le nostre convinzioni di base persistenti, come ad esempio “posso fidarmi”, oppure “nessuno si preoccupa di me”, o "non sono amato". Abbiamo sviluppato, attraverso le prime relazioni di attaccamento e le ferite relazionali,  uno “stampo”, a cui cerchiamo di adattare, in qualche misura, le nostre relazioni future. Questi modelli ci fanno, in pratica, da guida nella scelta delle nostre relazioni sane e non sane. 
Nelle relazioni non sane sperimentiamo l’esperienza di essere traditi, rifiutati o abbandonati, provocando alcuni tra i sentimenti più intollerabili, come odio, rabbia, vergogna, solitudine, paura e disperazione.
Quando, invece, si vivono relazioni sane, sperimentiamo sicurezza, protezione, calma e regolazione emotiva, contatto fisico, comunicazione, supporto e un senso di appartenenza. Bowlby nel 1973 affermava, quella che è l'essenza di una sana relazione:“Gli esseri umani di tutte le età si trovano ad essere più felici e ad essere in grado di mettere in pratica i loro talenti al meglio, quando sono sicuri che vi siano una o più persone di fiducia che andranno in loro aiuto in caso di difficoltà”. Sapere che c'è un altro che si prende cura di noi nel momento del bisogno, o in un periodo particolarmente difficile della nostra vita, può farci sentire protetti, accuditi, compresi e, soprattutto, non ci fa sentire soli. Ecco perchè è importante riuscire a costruire e mantenere una relazione sana con l'altro.


Quali sono i principi di una relazione interpersonale sana?

Basarsi sul rispetto reciproco, sull’empatia e sull’uguaglianza.
Si è entrambi capaci di fissare dei limiti chiari con l’altro e di essere assertivi senza essere aggressivi.
Entrambi hanno un equilibrio relativamente sano tra autonomia, dipendenza e interdipendenza.
Vi sentite entrambi al sicuro nel rapporto.
Entrambi avete un senso stabile dell’altra persona, anche quando non è con voi; potete tenerla nel cuore e nelle mente.
Riuscite entrambi a regolare le emozioni che vengono evocate nella relazione.
Entrambi siete in grado di negoziare e risolvere gran parte dei conflitti.
Entrambi avete la fiducia di base.
Solitamente siete entrambi capaci di capire e riflettere sulle motivazioni, e le intenzioni dell’altra persona in modo accurato.
Il rapporto si basa sul negoziare ciò che è meglio per voi due, non sul potere, né sul controllo, il dominio e la sottomissione.
Entrambi potete parlare dei vostri sentimenti e delle vostre esperienze interiori, senza paura del rifiuto e dell’umiliazione.

Sono principi che valgono in linea ideale, ma che vale la pena sforzarsi di ottenere e/o di raggiungere per poter poi vivere in relazioni sane. Vivere relazioni sane con l'altro presuppone una relazione sana con se stesso, per arrivare a questo, è necessario che le nostre ferite relazionali più profonde vengano curate, soprattutto quelle che facendoci da "stampo"  e da guida, ci hanno spinto, spesso, a vivere in relazioni non sane.
Pertanto, curare le ferite relazionali significa conquistare un po’ di libertà e di spontaneità dall'influenza che queste esercitano su di noi; significa potersi fermare e analizzare che cosa sta succedendo quando la nostra ferita viene scatenata, invece di manifestare solamente una reazione emotiva; significa poter osservare e affrontare la propria vulnerabilità; significa, infine, riuscire a costruire una base sicura con l'altro, una relazione sana, alla quale chiedere aiuto e conforto quando viviamo particolari momenti di difficoltà. 

Bibliografia:
S. Boon, K. Steele, O. Van der Hart “La dissociazione traumatica”, 2013 Mimesis Edizioni 

J.Welwood “Amore perfetto, relazioni imperfette”, 2014 Feltrinelli Editore 
Dr.ssa Stefania Alfano
Psicologa Psicoterapeuta 


mercoledì 17 giugno 2015

Il Cibo va gestito: ma come?!

Iniziare una dieta risolve i vari aspetti dell'alimentazione sotto diversi aspetti: si comincia dalla spesa, facendola nel modo più razionale possibile, acquistando solo gli alimenti richiesti dalla dieta ed evitando nel limite del possibile quelli non contemplati. E' consigliabile fare la spesa con una lista, dopo avere mangiato ovvero a stomaco pieno, possibilmente senza nessuno che determini acquisti "pericolosi". Un vantaggio sarebbe evitare le grandi scorte, con conseguenti accumuli di provviste che qualcuno dovrà pur ultimare. La gestione delle scorte è fondamentale: è sicuramente meglio evitare di esser indotti in tentazione. Una buona gestione delle provviste ha proprio questa funzione. In particolare servirebbe tenere lontano dagli occhi e fuori portata tutti i cibi pericolosi.

La preparazione del momento del pasto è il successivo passaggio importante. L'importanza di questo passaggio è legata alla necessità di chiarire quali sono i momenti del pasto e quali no. Serve cioè a separare correttamente i momenti in cui si mangia dai momenti in cui non si mangia.
Per questo motivo è bene imparare a non mangiare o bere nulla che non sia stato posto prima sulla tavola. L'atto del mangiare deve svolgersi evitando tutte le attività e le distrazioni, quali ad esempio guardare la televisione, ascoltare la radio, leggere il giornale: devi renderti conto che ti stai alimentando. Sempre per ben distinguere i momenti devi imparare a non mangiare durante lo svolgimento di altre attività. Mangia sempre con calma, senza fretta, cercando di apprezzare le sensazioni gustative anziché masticare e ingerire e basta: la stessa quantità di cibo mangiata con tranquillità e gusto ti sazia di più che mangiata velocemente. Se può essere utile, fa piccoli bocconi e non prepararne altri finchè quello precedente non sia finito del tutto. Fare tutte queste cose non ti costa alcuna fatica e ti aiuterà molto.

Rivolgersi sempre ad uno specialista è la prima regola fondamentale.


Dieta alla mano, però, tra il dire e il fare c'è di mezzo un mare...di errori!

Per dimagrire davvero, infatti, non basta la semplice decisione di mettersi a dieta. Per partire con il piede giusto, e sperare di ottenere risultati validi e definitivi,occorre avere ben chiari alcuni principi. Come parte integrante di un programma alimentare Occorre educazione alimentare e comportamentale . Non bisogna limitarsi a eseguire rigidamente e superficialmente una dieta… meglio cercare di comprendere e imparare il più possibile per non ricadere negli errori precedenti! È indispensabile un programma a lunga scadenza, che si estenda fino al consolidamento del risultato raggiunto. Se metà del lavoro consiste nel raggiungere il peso ideale, l'altra metà consisterà nel mantenerlo per sempre. Fare da soli non paga. Di tutti i modi per fare una dieta, quello che solitamente da meno frutti è quello fai da te, che di solito inizia e finisce in breve e per di più senza alcun risultato. Proprio perché non si tratta semplicemente di dimagrire, ma di imparare ad alimentarsi, è importante avere uno o più punti di riferimento.



Dott.ssa Guerrera Mariacarmela
Biologa Nutrizionista









lunedì 8 giugno 2015

Il Disturbo somatoforme



Le malattie somatiche sono quelle che manifestano i nostri meccanismi difensivi più arcaici, attraverso l’espressione diretta del disagio psichico nel corpo. Le capacità difensive tendono a tener lontani quei contenuti psichici per noi inaccettabili e imprevedibili, anche a costo di nuocere il proprio corpo. Le emozioni sono troppo dolorose per poter esser vissute e sentite, e pur essendo presenti, non vengono percepite e verbalizzate.

Il disturbo somatoforme è per definizione una sindrome caratterizzata dalla presenza di sintomi fisici che suggeriscono l’esistenza di un disturbo organico ma che, in realtà, non sono giustificati né da una condizione medica generale, né dagli effetti diretti di una sostanza, e né da un altro disturbo mentale. Affinchè si possa parlare di disturbo di somatizzazione, deve essere presente una storia di molteplici lamentele fisiche cominciate prima dei 30 anni, che portano ad una continua ed estenuante ricerca di trattamento, ad un punto tale da poter causare significative menomazioni del funzionamento sociale, lavorativo, o in altre importanti aree della vita della persona. I sintomi non sono prodotti in maniera intenzionale né sono simulati; i sintomi somatoformi storicamente riconosciuti sono quelli da conversione, da dolore psicogeno, e da somatizzazioni.

L’attenzione  è riposta principalmente sui segnali provenienti dal proprio corpo, interpretandoli come sintomi di una patologia organica, nonostante le numerose visite attestino il contrario. In realtà, alla base vi è una difficoltà nel processare coscientemente le informazioni viscerali dell’attivazione emozionale. In chiave psicosomatica, i sintomi cutanei sono rappresentazioni simboliche di situazioni che non possono essere espresse adeguatamente dall’ Io: le emozioni sono vietate. In ambito neuro biologico MacLean, già nel 1949, formulò l’ipotesi che nei pazienti psicosomatici le emozioni non riuscissero a giungere dai centri nervosi inferiori alla corteccia, impedendone, in tal modo, la verbalizzazione (Solano, 2001). Nell’impossibilità di pronunciare le emozioni, le parole rimangono, secondo l’espressione di N. Abraham e M. Torok (1978), "sotterrate vive".

Diversi studi, alla fine degli anni ottanta, hanno dimostrato un’associazione tra disturbi somatoformi e storie di traumi infantili.
A causa di ciò, sotto la pressione di altri eventi, si può produrre una frammentazione della  personalità, ossia l’ultima risposta possibile per difendersi dalla sofferenza. Tra le operazioni difensive che la mente umana può mettere in atto per contrastare il dolore, la dissociazione è certamente uno dei meccanismi più arcaici e immediatamente disponibili cui l’essere umano può ricorrere, sin dalle prime fasi dello sviluppo per preservarsi dalla minaccia di disgregazione psichica. La dissociazione è il risultato di un’istintiva risposta di sopravvivenza, ed è una delle possibili risposte, e, in generale, viene espressa come mancanza di integrazione tra le esperienze corporee, emotive e cognitive, e le rappresentazioni del Sé.


Dr.ssa Stefania Alfano
Psicologa-Psicoterapeuta 

lunedì 25 maggio 2015

GIORNATA NAZIONALE
DEL BIOLOGO NUTRIZIONISTA 2015

Il progetto Giornata nazionale del biologo nutrizionista 2015, “il biologo nutrizionista in piazza”, memore del successo dell’iniziativa pilota del 2014, si prefigge di continuare diffondere la cultura di una sana ed equilibrata alimentazione e di un corretto stile di vita.
Riguardo al quadro di malnutrizione per eccesso che interessa la popolazione italiana, e le importanti patologie a esso correlate, diviene infatti sempre più essenziale un’azione di educazione alimentare. Linee guida per una sana e corretta alimentazione, e stile di vita, che interessino tutte le fasce della popolazione, dai più giovani ai più anziani, come forma di prevenzione primaria, al fine di agire prima ancora che il problema del sovrappeso si manifesti con le sue negative conseguenze.
Molte persone compiono degli errori alimentari non eclatanti e manifesti, ma sottili e spesso taciuti. Diviene a tal proposito di fondamentale importanza il lavoro del nutrizionista che renda consapevole e cosciente la persona - attraverso un’attenta analisi delle abitudini alimentari e del suo stile di vita- degli errori alimentari e dei rischi potenziali a essi connessi.
Molto spesso, inoltre, non si valuta in maniera obiettiva la propria situazione di sovrappeso tralasciando aspetti fondamentali come l’apporto di sale, la corretta alternanza negli alimenti, un apporto adeguato di prodotti vegetali protettivi come frutta e verdura, l’indicazione della corretta preparazione degli alimenti per preservarne le proprietà nutrizionali, le linee guida alimentari dedicate ad ogni fascia di età e specifica condizione (età evolutiva, gravidanza, allattamento, sport, menopausa, età senile…).
La prevenzione e l’educazione alimentare sono al momento gli unici strumenti per favorire il benessere di una popolazione, in cui l’obesità e le sue critiche conseguenze continuano a destare preoccupazione e a rappresentare una spesa sanitaria considerevole. Con questa finalità i biologi nutrizionisti, con una partecipazione più ampia, presteranno il loro contributo professionale volontario e gratuito per la popolazione che ne farà richiesta, anche nel 2015.

domenica 12 aprile 2015

Ansia da separazione

La separazione è un evento che provoca diverse e forti emozioni a qualsiasi età questa avvenga. 
Ma quando si è piccoli, quando ancora non si è in grado di elaborare in maniera adeguata il perché la mamma ci ha “lasciato” a scuola o il perché un padre o una madre ci “hanno lasciato” a casa di un’amica, o in palestra, questo evento può diventare insuperabile e carico di ansia. 
Ed ecco che ci troviamo a fare i conti con il pianto inconsolabile del bambino, con l’aggrapparsi alla gamba del genitore nel momento in cui deve lasciarlo a scuola, e con quel senso di impotenza sperimentato dai  genitori ogni volta che devono separarsi dal bambino. Tutto questo chiama in causa la relazione di attaccamento.

Dalla letteratura sappiamo che l’attaccamento è un sistema comportamentale appreso; è qualcosa che ci fa avvicinare a qualcuno quando abbiamo bisogno di superare una difficoltà o quando abbiamo bisogno di essere consolati. L’emozione base di attivazione del sistema di attaccamento è la paura; un paura intesa, come quando ci sentiamo in forte pericolo. Pertanto, il nostro sistema di attaccamento si attiva ogni volta che viviamo situazioni in cui proviamo paura. Se un bambino prova paura, si farà aiutare da uno dei genitori o da un adulto di riferimento, se i genitori, in particolare la madre, sarà in grado di rispondere al suo bisogno allora il bambino sarà in grado di esplorare, di allontanarsi e saprà che ogni qual volta avrà bisogno di aiuto ci sarà qualcuno che si prenderà cura di lui, si sentirà sicuro e al sicuro. Bowbly sottolineava che “sapendo per certo che sarà il benvenuto, nutrito sul piano fisico ed emotivo, confortato se triste, rassicurato se spaventato”, il bambino svilupperà una base sicura dove ritornare ogni qual volta si sentirà in pericolo.
Cosa accade, invece, se si vive una situazione come se ci fosse un pericolo, se si prova paura di qualcosa, se si chiede aiuto e non c’è nessuno che può aiutarci? Si ha paura, si prova ansia, si piange. Il sistema di attaccamento ha appreso l’imprevedibilità della risposta della figura di accudimento nei confronti di una risposta ai nostri bisogni. La non risposta a quei bisogni, l’inadeguatezza delle risposte di accudimento, lasciano il bambino in uno stato di insicurezza e di impotenza. Pertanto, alla separazione rispondono con una forte ansia, con rabbia o ancora con un freddo distacco. Questa rottura dei legami d’attaccamento o questa profonda trascuratezza, può determinare delle conseguenze che rendono inadeguata sia la capacità di regolare l’affettività, sia la capacità di utilizzare le relazioni interpersonali per la modulazione degli stati affettivi interni.

Le esperienze di attaccamento nell’infanzia influenzano lo stile di personalità e di relazione nell’età adulta. Il bambino costruisce delle rappresentazioni di sé e della figura di attaccamento chiamate Modelli Operativi Interni (MOI). I MOI contengono la rappresentazione di sé e del caregiver nelle relazioni di attaccamento, organizzano pensieri e ricordi, e guidano i comportamenti futuri di attaccamento. Bambini che hanno sviluppato una forte ansia da separazione che difficilmente è stata contenuta, spesso diventano adulti ansiosi, insicuri, con convinzioni su di sé tipo “Io non sono amato”, “Io sono vulnerabile”, accompagnate con la paura costante di essere abbandonati, traditi e non ascoltati. 

Dott.ssa Stefania Alfano 
Psicologa-Psicoterapeuta