mercoledì 11 gennaio 2017

Le relazioni di coppia oggi.

Le relazioni di coppia nella nostra società sembrano avere un compito totalmente diverso da quelle vissute negli anni precedenti. In generale, se prima una relazione di coppia era basata su un accudimento reciproco, sul rispetto, sul sacrificio, sul valore della famiglia, oggi su cosa si basa la relazione di coppia? Forse instauriamo una relazione perchè spinti, in modo inconsapevole, dalla paura di stare soli o dalla paura della separazione, dal bisogno di controllare l’altro, oppure dal bisogno di dipendenza dell’altro.  Quasi sicuramente, nelle relazioni di oggi manca quel senso di responsabilità che era presente nelle coppie di un tempo, manca la consapevolezza di sé, dei propri bisogni, manca assumersi le responsabilità, e manca, quella voglia di conoscersi e di condividere. Ma una relazione per crescere e svilupparsi non può essere nutrita dalla “mancanza di”. Sembra che il compito di una coppia oggi sia quello di stare insieme per avere qualcuno che assolva quelle mancanze affettive vissute in precedenza e/o per riempire quei vuoti che da soli non riusciamo a colmare.



Una relazione è fatta anche di scambi, di comunicazione, di parole e di sguardi. Ora non si ha tempo e/o si ha difficoltà di vedere e di osservare l’altro. Conosciamo quali sono i bisogni del nostro partner? Conosciamo le sue paure? Conosciamo i suoi sogni e le sue ambizioni? La comunicazione oggi è fatta di messaggi inviati in fretta, di brevi scambi di informazioni ma che sono del tutto inadeguati e insufficienti per la conoscenza reciproca. Se nella coppia non ci si osserva e si comunica, come può poi essere fonte di accudimento e di cura? La base di una relazione sana è anche questo, sentirsi sicuri e protetti. Ma oggi non è così. Quante coppie stanno insieme pur non sentendosi sicure e protette, quante coppie stanno insieme pur non essendo consapevoli del bisogno dell’altro? Quante coppie oggi stanno insieme pur non comunicando? Capita molto spesso che la coppia sia fatta solo da due individui, a volte sconosciuti, e che sia assente l’essenza di sentirsi coppia, quel vivere la relazione di coppia in senso più profondo e sano. 

Ogni coppia poi trova il modo per sopravvivere e andare avanti, e spesso lo fa non guardandosi: litigi, tradimenti, controllo, dipendenza, o al contrario, per sopravvivere si diventa invisibili o l’altro diventa a noi invisibile in pratica “ti vedo, ma faccio come se non ci fossi”. In tal modo, invisibilità e distanza diventano alcuni degli aspetti fondanti delle relazioni odierne. Con il tempo, la distanza tra se e l’altro aumenta ma aumenta anche la distanza da se stessi, e si finisce, in tal modo, per diventare estranei, non ci si riconosce più, perdendo di vista l’essenza di una relazione di coppia sana. Le persone oggi scelgono di non conoscere l’altro e di non conoscere se stessi.  Forse potrebbe essere questo il compito della coppia di oggi, vale a dire rinforzare quelle che sono le nostre paure più profonde, o quelle che sono le nostre incapacità.  L’altro ci fa vedere, ci fa prendere contatto con quello che noi rifiutiamo di vedere in noi stessi e nella nostra storia, e si diventa ciechi, e come difesa ci allontaniamo dall'altro ma soprattutto da noi stessi, per evitare che quello che vediamo possa ferirci e farci soffrire. L'altro fugge e si deve fare i conti con la propria solitudine, con la tristezza, con l’ansia e con la paura di entrare un'altra volta in relazione e fidarsi di nuovo, e con tutte quelle emozioni e capacità che si cercava di non voler vedere. 

La società di oggi rinforza tutti questi aspetti, tale da rendere tutto normale, così tra app, social network e tanto altro, le relazioni prendono forma. Ma a che prezzo? Al prezzo di sentirsi soli anche quando si è in coppia, al prezzo di cercare altrove quello che non si vive dentro, al prezzo di sentirsi non compresi e accolti, al prezzo di non vedere che al nostro fianco c’è una persona che ha i suoi sogni, che i suoi bisogni, che ha una propria storia. Occorre, forse, fermarsi un attimo, prendere contatto con se stessi, osservare e vedere che direzione stanno prendendo le nostre relazioni, per poi ricominciare a costruire relazioni in cui ci si può guardare negli occhi senza sentire quella spinta a dover fuggire. 


Dr.ssa Stefania Alfano
Psicologa-Psicoterapeuta

lunedì 24 ottobre 2016

Il disturbo di dismorfismo corporeo



“Il corpo costituisce un substrato di base dell’identità e le sue trasformazioni, sia in termini di acquisizioni, sia in termini di decadimenti, continuano ad avere un’influenza su come l’individuo si percepisce e si valuta lungo tutto il corso della vita” 
(Palmonari, 2011)


Se Narciso guardandosi allo specchio si innamorava della sua stessa immagine, per il dismorfofobico non è così. Il dismorfofobico vede la sua immagine riflessa nello specchio come mostruosa, e per tale ragione si sente spinto a rimediare in qualsiasi modo ed a rincorrere, a tutti i costi, la perfezione.

Lo psichiatra Enrico Morselli, nel 1891 descrisse il dismorfofobico come una persona che in qualsiasi momento della giornata, indipendentemente da quello che sta facendo, è sopraffatto dalla paura della deformità; oggi nel DSM-5 tale disturbo è stato inserito nella categoria dei disturbi ossessivo compulsivi e disturbi correlati. La preoccupazione per l’aspetto fisico, il bisogno di controllarsi spesso allo specchio, una cura eccessiva per il corpo, il confrontare il proprio aspetto fisico con quello degli altri, sono solo alcuni degli aspetti e dei comportamenti messi in atto. Per tale ragione, gli individui con un’alta sensibilità estetica, possono essere più vulnerabili rispetto allo sviluppo del disturbo. 

L’esordio di tale disturbo avviene, in genere, durante l’adolescenza, proprio in quella delicata fase della vita in cui il corpo subisce profonde trasformazioni. La visione distorta di sé, è il riflesso di un’eccessiva preoccupazione per l’aspetto esteriore e per l’immagine. La troppa enfasi riposta sull’aspetto fisico consolida atteggiamenti quali la paura del giudizio, il sentirsi non adeguati, l’evitare di esporsi, il timore di fallire e di essere rifiutati. Per tale motivo, nel disturbo di dismorfismo corporeo, il funzionamento psicosociale e la qualità della vita sono marcatamente compromessi. 

La preoccupazione maggiore per gli individui con dismorfismo corporeo, è quella di essere valutati negativamente dagli altri. Molti credono che gli altri abbiano un’attenzione particolareggiata per i loro difetti fisici, e il percepire gli altri come rifiutanti, rinforza le preoccupazioni sulla propria bruttezza percepita e sulla scarsa desiderabilità sociale. La maggior parte crede di essere al centro dell’attenzione e che gli altri abbiano un atteggiamento critico e giudicante, con tendenze alla derisione e alla ridicolizzazione nei loro confronti. Queste credenze generano emozioni di vergogna, senso di colpa e rabbia, con conseguenti comportamenti di evitamento o aggressione anche violenta. È presente anche una profonda tristezza che riguarda, in particolare, la consapevolezza della perdita di un’immagine corporea bella, “non sono bello come vorrei essere”. 

È molto forte il bisogno di controllare; tale bisogno li spinge a guardarsi spesso allo specchio e ad un continuo monitoraggio con azioni anche manipolative per migliorare o rimuovere i difetti del proprio corpo; ma più aumentano i controlli sugli aspetti estetici e più cresce l’insoddisfazione. Il presunto difetto diventa l’unico ostacolo ad una vita piena di successi e di soddisfazioni, diventa il concentrato di tutto quello che nel soggetto non va, diventa “la madre di tutte le giustificazioni” per le sconfitte e le delusioni, e solo quando sarà rimosso allora tutto andrà per il verso giusto.
È un disturbo complesso e delicato, pertanto è necessario un percorso multidisciplinare, una maggiore collaborazione tra specialisti diversi è fondamentale per fornire le cure e un sostegno adeguati.




Fonte: di A. Scarinci, R. Lorenzini “Disturbo di dismorfismo corporeo”, Erickson


Stefania Alfano Psicologa Psicoterapeuta 



venerdì 15 luglio 2016

Alcune strategie efficaci per difendersi dalle critiche manipolative.


Le critiche manipolative sono quelle critiche con cui le altre persone plasmano negativamente l’immagine che abbiamo di noi stessi; in pratica, sono tutte quelle critiche che hanno l’intenzione di provocare in noi imbarazzo, senso di colpa, incompetenza e ansia. Queste critiche, attivando la nostra stessa autocritica, hanno un forte effetto sulla nostra autostima, e tendono a farci sentire stupidi, cattivi, sbagliati.
Credo che ognuno di noi, nella vita di tutti i giorni, abbia vissuto almeno una volta questa esperienza e che abbia, di conseguenza, sperimentato imbarazzo, rabbia, fastidio. Ma come ci difendiamo da queste critiche? Quali strategie mettiamo in atto per difenderci?


Se ci accorgiamo che siamo in presenza di una critica manipolativa, possiamo scegliere di mettere in atto alcune strategie. Michele Giannantonio, nel suo libro “Mi vado bene”, ci suggerisce alcune strategie utili per difenderci. Di seguito ne ripoto alcune:

  •  Persistenza: un strategia efficace è la persistenza, che consiste nel ripetere con insistenza la propria posizione in modo da non perdere di vista il proprio obiettivo nella discussione.
  • Ammettere i propri errori: se i nostri errori sono evidenti, conviene ammetterli, questo permette di difenderci dall’aggressività e dalla manipolazione dell’altro e, soprattutto, smorza i toni della discussione.
  •  Inchiesta negativa: chiedere informazioni sulla critica che ci viene fatta, in modo da poterla capire meglio ed evitare, in tal modo, di venir incastrati all’interno della logica manipolativa in cui l’altro ci vuole portare.
  • Suddividere la critica in più critiche: molto spesso all’interno di una discussione le critiche manipolative sono concatenate le une con le altre, è utile riuscire a suddividere la critica in più critiche e rispondere ad ognuna di esse separatamente; 
  • Discriminazione selettiva: scegliere a quale critica manipolativa riteniamo opportuno controbattere. Si può scegliere di rispondere alle critiche nei confronti delle quali ci si sente più sicuri di fornire una risposta adeguata, che non ci scalfisca.
  • Disarmo dell’aggressività: a volte può essere utile, per smorzare i toni della discussione e diminuirne l’aggressività, sdrammatizzare e ridimensionare l’entità del problema. Contrattaccare con l’ironia, in modo da frenare l’aggressività dell’altra persona. Questa è una strategia importante quanto delicata, occorre usarla nella giusta misura.

Queste sono solo alcune delle diverse strategie che possiamo utilizzare. Ora, avendo capito che siamo di fronte ad una critica manipolativa, cosa ci impedisce di utilizzare una di queste strategie? Per difendersi, è fondamentale che in noi risuonino le frasi come: “Ho il diritto di difendermi”, “Ho una dignità anch’io”, “Non mi può mancare di rispetto” e, di conseguenza, lasciar andare espressioni tipo “Non posso reagire”, “Non è giusto”, “Cosa succede se reagisco?”. Se impariamo a difenderci, ne trarrà, di sicuro, beneficio la nostra autostima e il nostro atteggiamento verso quello che proviamo, e la relazione con l'altro sarà più funzionale.


Fonte: M. Giannantonio (2010) “Mi vado bene? Autostima e assertività”, Trento, Erickson



Dr.ssa Stefania Alfano
Psicologa Psicoterapeuta

martedì 31 maggio 2016

RISARCIMENTO DEL DANNO DA VACANZA ROVINATA.


L’estate sta arrivando e si pensa già ad organizzare le meritate vacanze. Possono però capitare degli inconvenienti che trasformano il viaggio in un incubo. Vediamo insieme come il nostro ordinamento disciplina la materia e quando si configura il danno.
L'art. 47 del Codice del Turismo (d.lgs. 79/2011) definisce il "danno da vacanza rovinata" come "un risarcimento del danno correlato al tempo di vacanza inutilmente trascorso ed all'irripetibilità dell'occasione perduta", a patto che l'inadempimento sia "di non scarsa importanza".
L’articolo fa riferimento alla concezione di danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c.,  nella sua accezione di danno biologico, morale ed esistenziale, in quanto ciò che viene risarcito è l’occasione perduta, è lo stress patito, il turbamento a seguito del danno causato.
Il danno patrimoniale, invece, consiste nella perdita economica subìta, come, ad esempio, la mancata partenza o ritardo dell’aereo che mi ha costretto a cambiare biglietto o soggiornare una notte in hotel; lo smarrimento dei bagagli, che hanno un valore economico e vanno risarciti; servizi alberghieri diversi da quelli previsti dal contratto.

La risarcibilità del danno da vacanza rovinata è, dunque, espressamente prevista dalla legge, con il d.lgs. 79/2011, mentre precedentemente trovava applicazione il mero art. 2059 c.c., il quale, riconoscendo la risarcibilità ai soli casi previsti dalla legge, quello da vacanza rovinata era ancorato all’art. 32 Cost. In definitiva, prima del 2011, era riconosciuta la risarcibilità di tale danno solo qualora questo avesse influito sul diritto di salute.




Di seguito, alcune recenti sentenze.
Trib. Milano Sez. XI, 25-02-2016
La risarcibilità del danno da vacanza rovinata è strettamente connesso, secondo il disposto di cui all'art. 47 del Decreto Legislativo del 23 maggio 2011, n. 79, all'inadempimento ovvero all'inesatta esecuzione delle prestazioni oggetto del pacchetto turistico sottoscritto e sempre che vi sia non scarsa importanza secondo la nozione di cui all'art. 1455 del Codice Civile. Ne consegue che alla richiesta di risoluzione del contratto potrà essere affiancata quella di risarcimento del danno connesso alla durata della vacanza, al tempo inutilmente trascorso e, in particolare, all'irripetibilità dell'occasione perduta.

Trib. Potenza, 26-01-2016
I danni non patrimoniali risarcibili non sono suddivisibili in sottocategorie (danno esistenziale,  danno alla vita di relazione,  danno da vacanza rovinata,  danno parentale) essendo, il danno non patrimoniale, unico, ai sensi dell'art. 2059 c.c. ed essendo risarcibile ove ricorrano determinate condizioni: la previsione di legge o la natura di diritto inviolabile della persona della posizione giuridica lesa. Alla luce di tali principi si rileva, quindi, che non può essere risarcito in sé il c.d.  danno esistenziale perché occorre rifuggire da sottocategorie di danni il cui rischio evidente è quello di determinare la proliferazione delle fattispecie risarcitorie e l'ingiustificata locupletazione in conseguenza di fatti non generatori di pregiudizi ma solo di tollerabili fastidi.

Cass. civ. Sez. III, 14-07-2015, n. 14662
Il danno non patrimoniale da vacanza rovinata richiede la verifica della gravità della lesione e della serietà del pregiudizio patito dall'istante, al fine di accertarne la compatibilità col principio di tolleranza delle lesioni minime (precipitato, a propria volta, del dovere di solidarietà sociale previsto dall'art. 2 Cost.), e si traduce in un'operazione di bilanciamento demandata al prudente apprezzamento del giudice di merito, il quale, dalla constatazione della violazione della norma di legge che contempla il diritto oggetto di lesione, attribuisce rilievo solo a quelle condotte che offendono in modo sensibile la portata effettiva dello stesso. (Rigetta, Trib. Lamezia Terme, 15/11/2011)

Trib. Salerno Sez. II, 26-11-2014
In tema di risarcimento dei danni, il danno non patrimoniale "da vacanza rovinata", quale pregiudizio conseguente alla lesione dell'interesse del turista di godere pienamente del viaggio organizzato, come occasione di piacere e di riposo, è risarcibile, sebbene non vengano in rilievo lesioni dell'integrità psicofisica tutelate dall'art. 32 Cost. o diritti inviolabili della persona di rilevanza costituzionale, in quanto la risarcibilità di tale danno è espressamente prevista dalla legge, in particolare dal D.Lgs. n. 206/2005, cd. "Codice di consumo", oggi refluito, per la parte relativa ai servizi turistici, nel D.Lgs. n. 79/2011, il c.d. "Codice del Turismo".

Avv. Tiziana Alfano

giovedì 19 maggio 2016

È GIUSTO (E SOPRATTUTTO LEGALE) PUBBLICARE LE FOTO DEI VOSTRI FIGLI SU FACEBOOK?



Che sia una questione di giustezza (e di opportunità), questo lo lasciamo alla valutazione del genitore. Sicuramente c’è da considerare che le foto di minori condivise con una platea indefinita (e spesso sconosciuta) di persone possono essere “ri-condivise” da altri.
Con l’utilizzo sempre più frequente dei social media, è bene iniziare a valutare anche i rischi legali connessi a tale pratica. In Francia è stata introdotta una nuova normativa che innalzata la tutela della privacy dei minori, e conseguentemente condanna il genitore che pubblica foto del proprio figlio con una sanzione che va dalla multa al provvedimento penale.
Questo ha portato un po’ di scompiglio nei piani alti dell’azienda Facebook, che, per tutelarsi, ha inserito un pop-up che, al momento antecedente alla pubblicazione della foto di minori, avvisa dei possibili rischi legali nei quali si può incorrere.
In Italia non è prevista una normativa “ad hoc”. È possibile, però, esaminare quali siano le normative in vigore applicabili alla pubblicazione di foto dei propri figli.

La legge n. 633 del 1941, recante le disposizioni sulla protezione del diritto d'autore e di altri diritti connessi al suo esercizio, all’art. 96 introduce un divieto generale per l’esposizione, la riproduzione o il commercio del “ritratto” della persona senza il consenso della stessa.
Per il minore, però, vige la più conosciuta patria potestà (ora responsabilità genitoriale) per cui il genitore esercitando l’insieme dei diritti e dei doveri del figlio, tra i quali diritti rientrerebbe anche il diritto all’immagine di cui all’art. 10 c.c. (che disciplina la diversa ipotesi di abuso dell’immagine del figlio commesso da altri, e non dai genitori stessi), presta “in nome e per conto” del figlio il consenso alla pubblicazione della sua immagine.

Dunque, dal punto di vista legale è possibile pubblicare le foto dei propri figli minorenni (e fino a che restino tali). Quando diventerà maggiorenne, il genitore potrebbe essere oggetto di un’azione legale da parte del figlio, che finalmente potrà decidere cosa della sua vita debba restare privata. E sempre che nel frattempo non arrivi, come per la Francia, l’intervento del legislatore, che a questo punto sembrerebbe auspicabile.

Avv. Tiziana Alfano

venerdì 15 aprile 2016

IL DIRITTO COSTITUZIONALE DI RIFIUTARE LE CURE E LA RESPONSABILITÀ DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE DA PROVVEDIMENTO ILLEGITTIMO


Recentemente, il Tar Milano si è pronunciato sulla responsabilità della P.A. da attività illegittima, in relazione alla mancata esecuzione, da parte della Regione, della decisione del giudice di interrompere l'alimentazione forzata di un malato terminale in stato vegetativo.
Si è già avuto modo di parlare del diverso modo di inquadrare la disciplina dell’interruzione del procedimento di alimentazione artificiale, e delle diverse conseguenze giuridiche che ne derivano (vedi articolo QUESTIONI DI BIOETICA: IL CONSENSO INFORMATO E LO STATO VEGETATIVO C.D. PERSISTENTE). Brevemente, se si attribuisse alla nutrizione artificiale il valore di terapia, la sospensione dell’alimentazione e della idratazione troverebbe la sua tutela giuridica nell’art. 32 Cost., oltre che nel Codice di deontologia medica. In tal caso, l’idratazione ed alimentazione forzata configurerebbero come ipotesi di “accanimento terapeutico”, e, dunque, la sua sospensione sarebbe ammessa nel nostro ordinamento. Viceversa, se considerata come sostentamento vitale, la sospensione della nutrizione artificiale rientrerebbe in una forma di eutanasia, in quanto la morte del paziente sarebbe causata non da una volontaria interruzione del sostentamento, ma dall’omissione di una forma di sostegno, e come tale perseguibile penalmente. 
La sentenza in oggetto è la conclusione di una lunga vicenda processuale, all’interno della quale l’alimentazione artificiale viene riconosciuta come cura, e la sua interruzione come diritto assoluto di rifiutare le cure ad essa somministrate in qualunque fase del trattamento e per qualunque motivazione, sempre sul presupposto della sussistenza di specifici presupposti (cfr. Cass. Civ., I, 16 ottobre 2007, n. 21748, riferita proprio al caso de quo). Secondo tale orientamento, sussisterebbe un vero e proprio “diritto di staccare la spina”, inteso come diritto fondamentale di autodeterminazione in ordine alla libertà di scelta di non ricevere cure, oltre che della salute (vedi Cass. SS.UU, 22 dicembre 2015, n. 25767).

L’importanza di tale sentenza va ricondotta nell’aver esposto esaustivamente i contenuti che caratterizzano la responsabilità amministrativa da provvedimento illegittimo, distinguendola da quella civile extracontrattuale e contrattuale.
In primo luogo, il comportamento illecito deve essere inserito nell’ambito di un procedimento amministrativo. “L’amministrazione, in ossequio al principio di legalità, deve osservare predefinite regole, procedimentali e sostanziali, che scandiscono le modalità di svolgimento della sua azione” (cfr. sent. de qua).
In secondo luogo, le posizioni soggettive devono essere rappresentate dal potere pubblico da un lato, ed interesse legittimo (o nelle materie di giurisdizione esclusiva, diritto soggettivo) dall’altro.
Gli ulteriori elementi sono il nesso di causalità materiale e del danno ingiusto inteso come lesione alla posizione di interesse legittimo.

Una volta indicati i criteri caratterizzanti la responsabilità amministrativa da provvedimento illegittimo, il Tar verifica che nel caso in esame vi siano i presupposti per la sua configurazione quando la P.A. emani un provvedimento di diniego alla richiesta di “staccare la spina” (che, nel caso in esame, era supportata da precedente sentenza). Il Giudice amministrativo accoglie l'azione di risarcimento danni proposta dal genitore e tutore di una ragazza (che prima del decesso si trovava in stato di coma vegetativo) a titolo di danno iure hereditatis per lesione dei diritti fondamentali nonché a titolo di danno non patrimoniale da lesione di rapporto parentale. 

Fonte: Tar Lombardia - sede di Milano, Sez. III, n. 650 del 6 aprile 2016.


Avv. Tiziana Alfano
Avvocato

giovedì 14 aprile 2016

La persona obesa e il suo rapporto con il cibo.


L’alimentazione non è semplicemente il momento di un bisogno fisiologico, ma è un’attività alla quale l’individuo attribuisce molteplici significati. Vari studi hanno ampiamente dimostrato e confermato, che l’alimentazione rappresenta un momento fondamentale nel processo di sviluppo dell’individuo, in cui si intrecciamo sia elementi emotivi che cognitivi. 
L’obesità è una malattia cronica a diffusione mondiale, e la sua interazione con altre patologie, anch'esse croniche, ne rende la gestione particolarmente complessa.  
La persona obesa ha, in genere, un’immagine corporea di sè negativa; questo la rende più facilmente ansiosa ed imbarazzata, in diverse situazioni sociali, credendo che il suo aspetto riveli la sua inadeguatezza personale, e di persona senza forza di volontà. Molto spesso, focalizzano la loro attenzione sulla dimensione del loro corpo, immaginando che un corpo con qualche chilo in meno, possa rendere la loro vita pienamente soddisfacente e possa essere, soprattutto, la risoluzione di tutti i loro problemi.
Diversi studi, ritengono che l’obesità abbia origine nell’infanzia, in particolare nelle esperienze di nutrizione dei primi anni di vita. Quando la risposta che la madre fornisce a fronte di qualunque malessere del bambino, è il cibo, questi crescerà senza essere in grado di distinguere i differenti disagi che prova e imparando, in tal modo, a dare a tutto un’unica risposta: mangiare. 

Si ha difficoltà a riconoscere i bisogni del proprio corpo, e qualunque stato di malessere lo colpisca, si affronta in maniera caotica e confusa, proprio perché non è in grado di distinguere il malessere fisico da quello psicologico. La persona è incapace di riconoscere e descrivere le proprie emozioni (e anche quelle degli altri), in questo senso, è presente una evidente difficoltà nella  competenza emotiva. Il cibo diventa per l’obeso adulto, il modo di rispondere ad ogni emozione e sensazione sia positiva che negativa. Il cibo viene usato come compensazione di disagi psicologici.

Dal punto di vista psicologico oltre all’alessitimia (incapacità di riconoscere e descrivere le proprie emozioni), sono presenti difficoltà a livello comportamentale e relazionale (scarsa capacità di coping, passività nelle relazioni, evitamento di situazioni sociali difficili da gestire), e a livello cognitivo (tendenza al perfezionismo, bassa autostima, basso livello di autoefficacia, pensiero dicotomico, locus of control esterno, cioè attenzione centrato verso gli stimoli provenienti dall’esterno).

Nel momento in cui la persona obesa decida di iniziare un percorso integrato di consulenza con più specialisti della salute, è importante, un percorso che metta al centro la relazione che la persona ha con se stesso, con gli altri e con il mondo, cercando di recuperare le risorse interne e nel suo ambiente, per far ritrovare interesse e motivazione. 
Altro obiettivo, al pari del suo dimagrimento, è quello di sostenere e guidare la persona obesa a prendere contatto con le sue emozioni e ad imparare a distinguerle e a viverle come tali. In particolare, fornirgli gli strumenti necessari per gestire lo stress, la noia e l’ansia in una maniera efficace e costruttiva, per all’allontanarsi dall’idea del cibo esclusivamente come atto di compensazione.
E infine, è altrettanto importante prestare attenzione a tutti gli aspetti deficitari dell’immagine di sé e dell’autostima che lo caratterizzano, per permettergli, poi, di costruire un nuovo senso di autoefficacia che alimenti aspettative positive per il suo futuro.

Dr.ssa Stefania Alfano
Psicologa-Psicoterapeuta