lunedì 24 ottobre 2016

Il disturbo di dismorfismo corporeo



“Il corpo costituisce un substrato di base dell’identità e le sue trasformazioni, sia in termini di acquisizioni, sia in termini di decadimenti, continuano ad avere un’influenza su come l’individuo si percepisce e si valuta lungo tutto il corso della vita” 
(Palmonari, 2011)


Se Narciso guardandosi allo specchio si innamorava della sua stessa immagine, per il dismorfofobico non è così. Il dismorfofobico vede la sua immagine riflessa nello specchio come mostruosa, e per tale ragione si sente spinto a rimediare in qualsiasi modo ed a rincorrere, a tutti i costi, la perfezione.

Lo psichiatra Enrico Morselli, nel 1891 descrisse il dismorfofobico come una persona che in qualsiasi momento della giornata, indipendentemente da quello che sta facendo, è sopraffatto dalla paura della deformità; oggi nel DSM-5 tale disturbo è stato inserito nella categoria dei disturbi ossessivo compulsivi e disturbi correlati. La preoccupazione per l’aspetto fisico, il bisogno di controllarsi spesso allo specchio, una cura eccessiva per il corpo, il confrontare il proprio aspetto fisico con quello degli altri, sono solo alcuni degli aspetti e dei comportamenti messi in atto. Per tale ragione, gli individui con un’alta sensibilità estetica, possono essere più vulnerabili rispetto allo sviluppo del disturbo. 

L’esordio di tale disturbo avviene, in genere, durante l’adolescenza, proprio in quella delicata fase della vita in cui il corpo subisce profonde trasformazioni. La visione distorta di sé, è il riflesso di un’eccessiva preoccupazione per l’aspetto esteriore e per l’immagine. La troppa enfasi riposta sull’aspetto fisico consolida atteggiamenti quali la paura del giudizio, il sentirsi non adeguati, l’evitare di esporsi, il timore di fallire e di essere rifiutati. Per tale motivo, nel disturbo di dismorfismo corporeo, il funzionamento psicosociale e la qualità della vita sono marcatamente compromessi. 

La preoccupazione maggiore per gli individui con dismorfismo corporeo, è quella di essere valutati negativamente dagli altri. Molti credono che gli altri abbiano un’attenzione particolareggiata per i loro difetti fisici, e il percepire gli altri come rifiutanti, rinforza le preoccupazioni sulla propria bruttezza percepita e sulla scarsa desiderabilità sociale. La maggior parte crede di essere al centro dell’attenzione e che gli altri abbiano un atteggiamento critico e giudicante, con tendenze alla derisione e alla ridicolizzazione nei loro confronti. Queste credenze generano emozioni di vergogna, senso di colpa e rabbia, con conseguenti comportamenti di evitamento o aggressione anche violenta. È presente anche una profonda tristezza che riguarda, in particolare, la consapevolezza della perdita di un’immagine corporea bella, “non sono bello come vorrei essere”. 

È molto forte il bisogno di controllare; tale bisogno li spinge a guardarsi spesso allo specchio e ad un continuo monitoraggio con azioni anche manipolative per migliorare o rimuovere i difetti del proprio corpo; ma più aumentano i controlli sugli aspetti estetici e più cresce l’insoddisfazione. Il presunto difetto diventa l’unico ostacolo ad una vita piena di successi e di soddisfazioni, diventa il concentrato di tutto quello che nel soggetto non va, diventa “la madre di tutte le giustificazioni” per le sconfitte e le delusioni, e solo quando sarà rimosso allora tutto andrà per il verso giusto.
È un disturbo complesso e delicato, pertanto è necessario un percorso multidisciplinare, una maggiore collaborazione tra specialisti diversi è fondamentale per fornire le cure e un sostegno adeguati.




Fonte: di A. Scarinci, R. Lorenzini “Disturbo di dismorfismo corporeo”, Erickson


Stefania Alfano Psicologa Psicoterapeuta 



venerdì 15 luglio 2016

Alcune strategie efficaci per difendersi dalle critiche manipolative.


Le critiche manipolative sono quelle critiche con cui le altre persone plasmano negativamente l’immagine che abbiamo di noi stessi; in pratica, sono tutte quelle critiche che hanno l’intenzione di provocare in noi imbarazzo, senso di colpa, incompetenza e ansia. Queste critiche, attivando la nostra stessa autocritica, hanno un forte effetto sulla nostra autostima, e tendono a farci sentire stupidi, cattivi, sbagliati.
Credo che ognuno di noi, nella vita di tutti i giorni, abbia vissuto almeno una volta questa esperienza e che abbia, di conseguenza, sperimentato imbarazzo, rabbia, fastidio. Ma come ci difendiamo da queste critiche? Quali strategie mettiamo in atto per difenderci?


Se ci accorgiamo che siamo in presenza di una critica manipolativa, possiamo scegliere di mettere in atto alcune strategie. Michele Giannantonio, nel suo libro “Mi vado bene”, ci suggerisce alcune strategie utili per difenderci. Di seguito ne ripoto alcune:

  •  Persistenza: un strategia efficace è la persistenza, che consiste nel ripetere con insistenza la propria posizione in modo da non perdere di vista il proprio obiettivo nella discussione.
  • Ammettere i propri errori: se i nostri errori sono evidenti, conviene ammetterli, questo permette di difenderci dall’aggressività e dalla manipolazione dell’altro e, soprattutto, smorza i toni della discussione.
  •  Inchiesta negativa: chiedere informazioni sulla critica che ci viene fatta, in modo da poterla capire meglio ed evitare, in tal modo, di venir incastrati all’interno della logica manipolativa in cui l’altro ci vuole portare.
  • Suddividere la critica in più critiche: molto spesso all’interno di una discussione le critiche manipolative sono concatenate le une con le altre, è utile riuscire a suddividere la critica in più critiche e rispondere ad ognuna di esse separatamente; 
  • Discriminazione selettiva: scegliere a quale critica manipolativa riteniamo opportuno controbattere. Si può scegliere di rispondere alle critiche nei confronti delle quali ci si sente più sicuri di fornire una risposta adeguata, che non ci scalfisca.
  • Disarmo dell’aggressività: a volte può essere utile, per smorzare i toni della discussione e diminuirne l’aggressività, sdrammatizzare e ridimensionare l’entità del problema. Contrattaccare con l’ironia, in modo da frenare l’aggressività dell’altra persona. Questa è una strategia importante quanto delicata, occorre usarla nella giusta misura.

Queste sono solo alcune delle diverse strategie che possiamo utilizzare. Ora, avendo capito che siamo di fronte ad una critica manipolativa, cosa ci impedisce di utilizzare una di queste strategie? Per difendersi, è fondamentale che in noi risuonino le frasi come: “Ho il diritto di difendermi”, “Ho una dignità anch’io”, “Non mi può mancare di rispetto” e, di conseguenza, lasciar andare espressioni tipo “Non posso reagire”, “Non è giusto”, “Cosa succede se reagisco?”. Se impariamo a difenderci, ne trarrà, di sicuro, beneficio la nostra autostima e il nostro atteggiamento verso quello che proviamo, e la relazione con l'altro sarà più funzionale.


Fonte: M. Giannantonio (2010) “Mi vado bene? Autostima e assertività”, Trento, Erickson



Dr.ssa Stefania Alfano
Psicologa Psicoterapeuta

martedì 31 maggio 2016

RISARCIMENTO DEL DANNO DA VACANZA ROVINATA.


L’estate sta arrivando e si pensa già ad organizzare le meritate vacanze. Possono però capitare degli inconvenienti che trasformano il viaggio in un incubo. Vediamo insieme come il nostro ordinamento disciplina la materia e quando si configura il danno.
L'art. 47 del Codice del Turismo (d.lgs. 79/2011) definisce il "danno da vacanza rovinata" come "un risarcimento del danno correlato al tempo di vacanza inutilmente trascorso ed all'irripetibilità dell'occasione perduta", a patto che l'inadempimento sia "di non scarsa importanza".
L’articolo fa riferimento alla concezione di danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c.,  nella sua accezione di danno biologico, morale ed esistenziale, in quanto ciò che viene risarcito è l’occasione perduta, è lo stress patito, il turbamento a seguito del danno causato.
Il danno patrimoniale, invece, consiste nella perdita economica subìta, come, ad esempio, la mancata partenza o ritardo dell’aereo che mi ha costretto a cambiare biglietto o soggiornare una notte in hotel; lo smarrimento dei bagagli, che hanno un valore economico e vanno risarciti; servizi alberghieri diversi da quelli previsti dal contratto.

La risarcibilità del danno da vacanza rovinata è, dunque, espressamente prevista dalla legge, con il d.lgs. 79/2011, mentre precedentemente trovava applicazione il mero art. 2059 c.c., il quale, riconoscendo la risarcibilità ai soli casi previsti dalla legge, quello da vacanza rovinata era ancorato all’art. 32 Cost. In definitiva, prima del 2011, era riconosciuta la risarcibilità di tale danno solo qualora questo avesse influito sul diritto di salute.




Di seguito, alcune recenti sentenze.
Trib. Milano Sez. XI, 25-02-2016
La risarcibilità del danno da vacanza rovinata è strettamente connesso, secondo il disposto di cui all'art. 47 del Decreto Legislativo del 23 maggio 2011, n. 79, all'inadempimento ovvero all'inesatta esecuzione delle prestazioni oggetto del pacchetto turistico sottoscritto e sempre che vi sia non scarsa importanza secondo la nozione di cui all'art. 1455 del Codice Civile. Ne consegue che alla richiesta di risoluzione del contratto potrà essere affiancata quella di risarcimento del danno connesso alla durata della vacanza, al tempo inutilmente trascorso e, in particolare, all'irripetibilità dell'occasione perduta.

Trib. Potenza, 26-01-2016
I danni non patrimoniali risarcibili non sono suddivisibili in sottocategorie (danno esistenziale,  danno alla vita di relazione,  danno da vacanza rovinata,  danno parentale) essendo, il danno non patrimoniale, unico, ai sensi dell'art. 2059 c.c. ed essendo risarcibile ove ricorrano determinate condizioni: la previsione di legge o la natura di diritto inviolabile della persona della posizione giuridica lesa. Alla luce di tali principi si rileva, quindi, che non può essere risarcito in sé il c.d.  danno esistenziale perché occorre rifuggire da sottocategorie di danni il cui rischio evidente è quello di determinare la proliferazione delle fattispecie risarcitorie e l'ingiustificata locupletazione in conseguenza di fatti non generatori di pregiudizi ma solo di tollerabili fastidi.

Cass. civ. Sez. III, 14-07-2015, n. 14662
Il danno non patrimoniale da vacanza rovinata richiede la verifica della gravità della lesione e della serietà del pregiudizio patito dall'istante, al fine di accertarne la compatibilità col principio di tolleranza delle lesioni minime (precipitato, a propria volta, del dovere di solidarietà sociale previsto dall'art. 2 Cost.), e si traduce in un'operazione di bilanciamento demandata al prudente apprezzamento del giudice di merito, il quale, dalla constatazione della violazione della norma di legge che contempla il diritto oggetto di lesione, attribuisce rilievo solo a quelle condotte che offendono in modo sensibile la portata effettiva dello stesso. (Rigetta, Trib. Lamezia Terme, 15/11/2011)

Trib. Salerno Sez. II, 26-11-2014
In tema di risarcimento dei danni, il danno non patrimoniale "da vacanza rovinata", quale pregiudizio conseguente alla lesione dell'interesse del turista di godere pienamente del viaggio organizzato, come occasione di piacere e di riposo, è risarcibile, sebbene non vengano in rilievo lesioni dell'integrità psicofisica tutelate dall'art. 32 Cost. o diritti inviolabili della persona di rilevanza costituzionale, in quanto la risarcibilità di tale danno è espressamente prevista dalla legge, in particolare dal D.Lgs. n. 206/2005, cd. "Codice di consumo", oggi refluito, per la parte relativa ai servizi turistici, nel D.Lgs. n. 79/2011, il c.d. "Codice del Turismo".

Avv. Tiziana Alfano

giovedì 19 maggio 2016

È GIUSTO (E SOPRATTUTTO LEGALE) PUBBLICARE LE FOTO DEI VOSTRI FIGLI SU FACEBOOK?



Che sia una questione di giustezza (e di opportunità), questo lo lasciamo alla valutazione del genitore. Sicuramente c’è da considerare che le foto di minori condivise con una platea indefinita (e spesso sconosciuta) di persone possono essere “ri-condivise” da altri.
Con l’utilizzo sempre più frequente dei social media, è bene iniziare a valutare anche i rischi legali connessi a tale pratica. In Francia è stata introdotta una nuova normativa che innalzata la tutela della privacy dei minori, e conseguentemente condanna il genitore che pubblica foto del proprio figlio con una sanzione che va dalla multa al provvedimento penale.
Questo ha portato un po’ di scompiglio nei piani alti dell’azienda Facebook, che, per tutelarsi, ha inserito un pop-up che, al momento antecedente alla pubblicazione della foto di minori, avvisa dei possibili rischi legali nei quali si può incorrere.
In Italia non è prevista una normativa “ad hoc”. È possibile, però, esaminare quali siano le normative in vigore applicabili alla pubblicazione di foto dei propri figli.

La legge n. 633 del 1941, recante le disposizioni sulla protezione del diritto d'autore e di altri diritti connessi al suo esercizio, all’art. 96 introduce un divieto generale per l’esposizione, la riproduzione o il commercio del “ritratto” della persona senza il consenso della stessa.
Per il minore, però, vige la più conosciuta patria potestà (ora responsabilità genitoriale) per cui il genitore esercitando l’insieme dei diritti e dei doveri del figlio, tra i quali diritti rientrerebbe anche il diritto all’immagine di cui all’art. 10 c.c. (che disciplina la diversa ipotesi di abuso dell’immagine del figlio commesso da altri, e non dai genitori stessi), presta “in nome e per conto” del figlio il consenso alla pubblicazione della sua immagine.

Dunque, dal punto di vista legale è possibile pubblicare le foto dei propri figli minorenni (e fino a che restino tali). Quando diventerà maggiorenne, il genitore potrebbe essere oggetto di un’azione legale da parte del figlio, che finalmente potrà decidere cosa della sua vita debba restare privata. E sempre che nel frattempo non arrivi, come per la Francia, l’intervento del legislatore, che a questo punto sembrerebbe auspicabile.

Avv. Tiziana Alfano

venerdì 15 aprile 2016

IL DIRITTO COSTITUZIONALE DI RIFIUTARE LE CURE E LA RESPONSABILITÀ DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE DA PROVVEDIMENTO ILLEGITTIMO


Recentemente, il Tar Milano si è pronunciato sulla responsabilità della P.A. da attività illegittima, in relazione alla mancata esecuzione, da parte della Regione, della decisione del giudice di interrompere l'alimentazione forzata di un malato terminale in stato vegetativo.
Si è già avuto modo di parlare del diverso modo di inquadrare la disciplina dell’interruzione del procedimento di alimentazione artificiale, e delle diverse conseguenze giuridiche che ne derivano (vedi articolo QUESTIONI DI BIOETICA: IL CONSENSO INFORMATO E LO STATO VEGETATIVO C.D. PERSISTENTE). Brevemente, se si attribuisse alla nutrizione artificiale il valore di terapia, la sospensione dell’alimentazione e della idratazione troverebbe la sua tutela giuridica nell’art. 32 Cost., oltre che nel Codice di deontologia medica. In tal caso, l’idratazione ed alimentazione forzata configurerebbero come ipotesi di “accanimento terapeutico”, e, dunque, la sua sospensione sarebbe ammessa nel nostro ordinamento. Viceversa, se considerata come sostentamento vitale, la sospensione della nutrizione artificiale rientrerebbe in una forma di eutanasia, in quanto la morte del paziente sarebbe causata non da una volontaria interruzione del sostentamento, ma dall’omissione di una forma di sostegno, e come tale perseguibile penalmente. 
La sentenza in oggetto è la conclusione di una lunga vicenda processuale, all’interno della quale l’alimentazione artificiale viene riconosciuta come cura, e la sua interruzione come diritto assoluto di rifiutare le cure ad essa somministrate in qualunque fase del trattamento e per qualunque motivazione, sempre sul presupposto della sussistenza di specifici presupposti (cfr. Cass. Civ., I, 16 ottobre 2007, n. 21748, riferita proprio al caso de quo). Secondo tale orientamento, sussisterebbe un vero e proprio “diritto di staccare la spina”, inteso come diritto fondamentale di autodeterminazione in ordine alla libertà di scelta di non ricevere cure, oltre che della salute (vedi Cass. SS.UU, 22 dicembre 2015, n. 25767).

L’importanza di tale sentenza va ricondotta nell’aver esposto esaustivamente i contenuti che caratterizzano la responsabilità amministrativa da provvedimento illegittimo, distinguendola da quella civile extracontrattuale e contrattuale.
In primo luogo, il comportamento illecito deve essere inserito nell’ambito di un procedimento amministrativo. “L’amministrazione, in ossequio al principio di legalità, deve osservare predefinite regole, procedimentali e sostanziali, che scandiscono le modalità di svolgimento della sua azione” (cfr. sent. de qua).
In secondo luogo, le posizioni soggettive devono essere rappresentate dal potere pubblico da un lato, ed interesse legittimo (o nelle materie di giurisdizione esclusiva, diritto soggettivo) dall’altro.
Gli ulteriori elementi sono il nesso di causalità materiale e del danno ingiusto inteso come lesione alla posizione di interesse legittimo.

Una volta indicati i criteri caratterizzanti la responsabilità amministrativa da provvedimento illegittimo, il Tar verifica che nel caso in esame vi siano i presupposti per la sua configurazione quando la P.A. emani un provvedimento di diniego alla richiesta di “staccare la spina” (che, nel caso in esame, era supportata da precedente sentenza). Il Giudice amministrativo accoglie l'azione di risarcimento danni proposta dal genitore e tutore di una ragazza (che prima del decesso si trovava in stato di coma vegetativo) a titolo di danno iure hereditatis per lesione dei diritti fondamentali nonché a titolo di danno non patrimoniale da lesione di rapporto parentale. 

Fonte: Tar Lombardia - sede di Milano, Sez. III, n. 650 del 6 aprile 2016.


Avv. Tiziana Alfano
Avvocato

giovedì 14 aprile 2016

La persona obesa e il suo rapporto con il cibo.


L’alimentazione non è semplicemente il momento di un bisogno fisiologico, ma è un’attività alla quale l’individuo attribuisce molteplici significati. Vari studi hanno ampiamente dimostrato e confermato, che l’alimentazione rappresenta un momento fondamentale nel processo di sviluppo dell’individuo, in cui si intrecciamo sia elementi emotivi che cognitivi. 
L’obesità è una malattia cronica a diffusione mondiale, e la sua interazione con altre patologie, anch'esse croniche, ne rende la gestione particolarmente complessa.  
La persona obesa ha, in genere, un’immagine corporea di sè negativa; questo la rende più facilmente ansiosa ed imbarazzata, in diverse situazioni sociali, credendo che il suo aspetto riveli la sua inadeguatezza personale, e di persona senza forza di volontà. Molto spesso, focalizzano la loro attenzione sulla dimensione del loro corpo, immaginando che un corpo con qualche chilo in meno, possa rendere la loro vita pienamente soddisfacente e possa essere, soprattutto, la risoluzione di tutti i loro problemi.
Diversi studi, ritengono che l’obesità abbia origine nell’infanzia, in particolare nelle esperienze di nutrizione dei primi anni di vita. Quando la risposta che la madre fornisce a fronte di qualunque malessere del bambino, è il cibo, questi crescerà senza essere in grado di distinguere i differenti disagi che prova e imparando, in tal modo, a dare a tutto un’unica risposta: mangiare. 

Si ha difficoltà a riconoscere i bisogni del proprio corpo, e qualunque stato di malessere lo colpisca, si affronta in maniera caotica e confusa, proprio perché non è in grado di distinguere il malessere fisico da quello psicologico. La persona è incapace di riconoscere e descrivere le proprie emozioni (e anche quelle degli altri), in questo senso, è presente una evidente difficoltà nella  competenza emotiva. Il cibo diventa per l’obeso adulto, il modo di rispondere ad ogni emozione e sensazione sia positiva che negativa. Il cibo viene usato come compensazione di disagi psicologici.

Dal punto di vista psicologico oltre all’alessitimia (incapacità di riconoscere e descrivere le proprie emozioni), sono presenti difficoltà a livello comportamentale e relazionale (scarsa capacità di coping, passività nelle relazioni, evitamento di situazioni sociali difficili da gestire), e a livello cognitivo (tendenza al perfezionismo, bassa autostima, basso livello di autoefficacia, pensiero dicotomico, locus of control esterno, cioè attenzione centrato verso gli stimoli provenienti dall’esterno).

Nel momento in cui la persona obesa decida di iniziare un percorso integrato di consulenza con più specialisti della salute, è importante, un percorso che metta al centro la relazione che la persona ha con se stesso, con gli altri e con il mondo, cercando di recuperare le risorse interne e nel suo ambiente, per far ritrovare interesse e motivazione. 
Altro obiettivo, al pari del suo dimagrimento, è quello di sostenere e guidare la persona obesa a prendere contatto con le sue emozioni e ad imparare a distinguerle e a viverle come tali. In particolare, fornirgli gli strumenti necessari per gestire lo stress, la noia e l’ansia in una maniera efficace e costruttiva, per all’allontanarsi dall’idea del cibo esclusivamente come atto di compensazione.
E infine, è altrettanto importante prestare attenzione a tutti gli aspetti deficitari dell’immagine di sé e dell’autostima che lo caratterizzano, per permettergli, poi, di costruire un nuovo senso di autoefficacia che alimenti aspettative positive per il suo futuro.

Dr.ssa Stefania Alfano
Psicologa-Psicoterapeuta

venerdì 11 marzo 2016

Mi sento frustrato. Cosa posso fare? 

La “frustrazione” è quella condizione per la quale l’organismo si sente ostacolato, in modo temporaneo o permanente, nella soddisfazione dei propri bisogni. È una condizione che molti  sperimentano nella vita di tutti i giorni. Si tratta di situazioni in cui determinati fattori si oppongono al soddisfacimento di bisogni, funzionando da ostacoli e, quindi, rendendo vano il tentativo dell’individuo di realizzarli.
Le cause della frustrazione possono essere le più diverse. Cause derivanti dall'ambiente fisico (cause dovute all'ambiente geografico); cause derivanti dall'ambiente sociale (in pratica l’ambiente di lavoro, la valorizzazione dei ruoli, l’organizzazione gerarchica più o meno rigida, la libertà o meno di poter accedere alla propria posizione possono essere forti cause di frustrazione). Altre cause possono essere quelle familiari, ad esempio, in alcuni ambienti familiari, vige un clima autoritario in cui il bambino (e anche l’adulto), può raggiungere una sicurezza emotiva solo a condizione di rinunciare a numerose esigenze personali, e assumendo solo i valori e le norme proposte dagli adulti di riferimento. 

Come reagiamo di fronte ad una frustrazione? 
Di fronte alla frustrazione l’individuo può reagire in diversi modi. Tutte le diverse reazioni che possiamo mettere in atto, tenderebbero a far superare l’ostacolo per permettere il raggiungimento del fine, e dunque la soddisfazione del proprio bisogno, ma alcune di esse, quelle più utilizzate, risultano essere inadeguate, facendo aumentare, di conseguenza, lo stato di malessere e di frustrazione . 
Nella maggior parte dei casi, reagiamo in maniera inadeguata e, spesso, anche con un grande dispendio di energia. Capita che di fronte ad un periodo di forte frustrazione, l’aggressività, sia quella diretta al mondo esterno sia quella rivolta verso se stessi, sembra essere la reazione più immediata e sembra essere l'unico modo che, in quel momento, abbiamo a disposizione per fronteggiare la frustrazione. Ma l’aggressività, è una reazione che tende alla distruzione, all'allontanamento, e a mettere in cattiva luce la persona o l’oggetto che avvertiamo come causa della nostra frustrazione.  
Altra reazione inadeguata è la fissazione. La fissazione deriva dal fallimento dello sforzo di adattamento all'ambiente sociale, e la frustrazione ripetuta contribuisce ad arrestare proprio quel fondamentale processo di cambiamento e maturazione, provocando, appunto uno stato di fissazione. Consiste, in generale, nella persistenza di modelli comportamentali acquisiti, ma che sono modelli immaturi nell'affrontare la situazione. Altra strategia, spesso utilizzata, ma del tutto inadeguata, è quella di reagire attraverso un’eccessiva razionalizzazione. Inoltre, capita anche spesso che in un periodo di forte frustrazione, una soluzione immediata che si ha a disposizione è l’isolamento; in questo modo, l’individuo allontanandosi da tutto e da tutti, non crea la situazione giusta per poter gestire il suo senso di frustrazione, ed è una soluzione, questa, poco efficace. 
Ma accanto a queste reazioni inadeguate, ci sono anche quelle reazioni adeguate al raggiungimento dei nostri bisogni e che permettono di superare il periodo di frustrazione. Fra diverse strategie che possiamo utilizzare, c’è, ad esempio l’intensificazione dello sforzo, necessario per superare l’ostacolo mobilitando gli stessi strumenti, ma con un lavoro più intenso e con uno sforzo più concentrato. È una strategie adeguata solo se permette realmente di raggiungere lo scopo, altrimenti c’è il rischio che possa trasformarsi in una reazione inadeguata e diventi “fissazione”. 
Altra strategia adeguata è la riorganizzazione dei dati. Quando gli strumenti e le strategie utilizzate per il superamento dell’ostacolo sono inefficaci, si può “riorganizzare” il problema, affrontandolo con modalità diverse. L’ostacolo può venir superato perché le nozioni, gli strumenti e le capacità di cui si è in possesso sono male gestiti, e si richiede, dunque, una nuova riorganizzazione, una nuova articolazione fra i mezzi e fini. Per fare ciò occorre plasticità e flessibilità, occorre saper impegnare i mezzi in modo diverso e, soprattutto, saper sfruttare nuovi mezzi abbandonandone altri. 
Quando le reazioni precedenti non danno la possibilità di esito positivo, la reazione più efficace alla frustrazione consiste, per forza di cose, alla sostituzione del fine che l’individuo si è preposto. Si può cercare di sostituire il fine con uno similare.
Oppure possiamo fermarci un attimo e capire cosa ci ha portato ad arrivare a tale senso di frustrazione, e ridimensionare le aspettative riguardo alla soddisfazione del nostro bisogno.

Abbiamo a disposizione diverse strategie utili per fronteggiare la frustrazione, ma molto spesso, però, accade che restiamo incastrati in questo stato di forte disagio, e non riusciamo a trovare una via d’uscita per ritrovare il nostro benessere. Quando non si riesce da soli a trovare la giusta strada, occorre farsi aiutare e rivolgersi ad uno specialista, in modo da restituire significato al vissuto di frustrazione e da ritrovare la via d’uscita. 

lunedì 15 febbraio 2016

Quaresima: purificare l'anima ... disintossicare il corpo.







È da poco finito il Carnevale, l'ultimo periodo utile prima della Quaresima per rimpinzarsi di zuccheri (vino e dolciumi) e carne (che vanno tanto bene insieme). 
Ecco dunque il significato anche pratico, oltre che penitenziale e spirituale, della Quaresima, quaranta giorni, quattro domeniche prima di Pasqua a partire dal Mercoledì delle Ceneri. 

La Quaresima è l'occasione per purificare prima di tutto l'anima, ma anche un'opportunità per disintossicare il corpo e soprattutto il fegato, messo a dura prova dagli eccessi di Carnevale; ciò non significa rinuncia totale al cibo, ma moderazione: poco cibo, tanta acqua, pesce invece di carne, cibi semplici, niente concessioni alla golosità. La Quaresima passa prima dal cuore, poi dalla testa e infine dallo stomaco. Il digiuno religioso, all'origine, ha quindi valenza spirituale, ma anche fisica. 

Purificarsi, infatti, è necessario, oggi come in passato, dopo i bagordi di Carnevale, quando l'apparato digerente è stato sovraccaricato di grassi, di proteine, di carboidrati; messo alla prova da tecniche di cucina che hanno sovrapposto elementi che non dovevano essere accoppiati tra di loro. Il fegato non ne può più. E non è solo un problema digestivo. Quando c'è un affaticamento epatico c'è anche un'interferenza neuronale. Il cervello non ce la fa a sopportare la tensione continua del fegato, perché si altera la produzione di endorfine, di serotonina, di alcuni neuropeptidi che ci danno l'equilibrio.

Durante la Quaresima, cristianamente, si cerca di utilizzare questo
periodo per digiuni e astinenze utili al corpo e all’anima, laicamente ci si sottopone a maratone alimentari stressanti, col solo scopo di riguadagnare la linea. 
Un conto è eseguire un digiuno, anche rigido, un giorno alla settimana, classico il venerdì, un altro è digiunare per tanti giorni consecutivamente, solo per dimagrire, senza controllo medico.

Il digiuno mobilizza tutti i grassi, sia viscerali sia sottocutanei, e li trasforma in zuccheri che poi vengono bruciati e utilizzati come energia. Io consiglierei, a chi non è in grado di eseguire il digiuno spirituale di fare piccole e salutari rinunce, come ai dolci, che non sono essenziali tutti i giorni, oppure ai manicaretti particolarmente conditi e quindi troppo ricchi di grassi. La semplicità della tavola può essere un modo per ricordarsi di essere cristiani e in cambio se ne otterrà salute del corpo e dell’anima. 

Ma il digiuno disintossica? Se si esegue al modo cristiano sopra descritto, che ha un tempo ridotto, si ottiene effettivamente un regime di compenso contro gli eccessi alimentari; il fegato gradisce e partecipa con piacere a questa azione di pulizia metabolica. Le diete digiuno/dimagranti se sono esasperate portano a stati di acetonemia, per la carenza di zuccheri che fa soffrire sia il cervello sia i muscoli. Il digiuno prolungato è sempre deleterio perché porta in sé un’azione negativa, cioè, si perde peso abbastanza rapidamente ma quando si smette la dieta si ingrassa altrettanto velocemente, anzi, talvolta di più di quanto si sia dimagrito.

Il fegato funziona come un filtro di tutto ciò che ingeriamo, ma se nella dieta si introducono troppi grassi e zuccheri, questo organo si appesantisce e rallenta il suo funzionamento. 

Ecco perché è molto importante mantenerlo in salute e depurato anche con l’aiuto di una sana alimentazione. I benefici di un fegato ben funzionante sono molteplici sia sulla linea che per la salute.
Si assimilano meglio carboidrati, grassi, proteine e vitamine. L’intestino è regolare e la pancia si sgonfia. Ci si sente più forti e resistenti alla fatica e le difese immunitarie sono rafforzate. La pelle, le unghie e i capelli sono più resistenti e brillanti, il cuore è meno affaticato, si dorme meglio e si hanno più energie. Insomma un fegato che funziona è garanzia di salute, bellezza e benessere. 

Quaranta giorni, seguendo le regole del mangiare sano e senza eccessi, sono l'asso nella manica per migliorare la salute del nostro corpo. Ricordiamoci pure di non mangiare molto tardi la sera e, se capita, di farlo in modo leggerissimo perché e proprio nel corso della notte che il fegato manifesta la sua piena vitalità purificatrice del sangue e non desidera essere impegnato e sovraffaticato più del normale. Con qualche accorgimento, i giorni della Quaresima, oltre ad essere sostenuti da una motivazione spirituale, avranno maggiori benefici.

Dott.ssa Guerrera Mariacarmela 
Biologa Nutrizionista

giovedì 4 febbraio 2016

Il Peso della Parole

Non giudicare una persona dall' aspetto fisico.
Troppo facile dire ad una persona obesa: "Mettiti a dieta".
Anche queste parole hanno un peso.
I chili in più, il più delle volte, diventano uno scudo per proteggersi.
                                     
                                                  


La persona obesa non mangia solo per fame; mangia anche per riempire un vuoto, non riconosce quella sensazione di insoddisfazione che sente allo stomaco e viene confusa con la fame.
Spesso quella sensazione di vuoto è una mancanza emotiva, è un disagio, l'assenza di una persona che nella propria vita fa la differenza, l'assenza di stima, di fiducia in sé stessi, assenza di serenità e benessere.

Di cosa si ha bisogno? Sentirsi viva, riconosciuta e apprezzata dagli altri; lo scudo che ha creato, quello "scudo di grasso", quella protezione allontana gli altri, non gli consente di guardare oltre, e non permette di farsi vedere realmente per la persona che si è dietro il proprio scudo.

Si ha la necessità di essere considerati, di essere accettati, di essere amati, ma capita di non riuscire a trovare la strada. Non si sa come venirne a capo, per uscire da questa malattia che fa diventare difficile ogni semplice azione quotidiana, dal vestirsi, all’ alzarsi dal letto, camminare, abbracciare i propri figli, lavorare a volte addirittura respirare diventa faticoso.


Si è sofferto abbastanza, nessuno merita di stare cosi male, dietro ad ogni persona obesa c’è una persona che soffre. Ognuno ha il diritto di essere felice e di ricominciare a vivere bene.

Iniziamo a dare il giusto peso alla propria vita. Iniziamo a scegliere un giusto stile di vita.


Dott.ssa Guerrera Mariacarmela
Biologa Nutrizionista