Generalmente definiamo
empatia, la capacità di immedesimarsi e comprendere le emozioni di un’altra
persona. La parola deriva dal greco “εμπαθεία” (empatéia, composta
da en-, "dentro", e pathos, "sofferenza o sentimento"),
significa, appunto, “sentire dentro”.
Il modello di sviluppo
di Martin Hoffman è considerato uno dei più esaustivi modelli di sviluppo
dell’empatia. L'autore articola l’empatia in diverse capacità e competenze che, con
il procedere dello sviluppo, diventano sempre più mature e sofisticate. In
questo modello, la componente affettiva e la componente cognitiva interagiscono
costantemente, e, in ciascuno stadio evolutivo, includono la motivazione ad
agire positivamente in modo da alleviare il disagio altrui.
I primi segnali di empatia, appaiono sorprendentemente presto. Fin dalle primissime ore di vita sono
osservabili nei neonati delle reazioni di distress
empatico globale. Nei
primi mesi di vita, i neonati non sono in grado di percepire se stessi e gli
altri come entità distinte; percepiscono la sofferenza di qualcuno, come
se fosse una propria l’emozione. L’empatia,
in tale fase, si connota come una reazione affettiva, automatica e involontaria,
che prende il nome di contagio emotivo ( ad esempio il pianto mostrato dai neonati in risposta al pianto di
altri neonati).
Intorno al primo anno
di vita, i bambini cominciano a percepire una prima distinzione tra sé e
l’altro, e ad attribuire alle espressioni facciali un particolare significato. In
questa fase, definita fase di distress empatico egocentrico, i bambini mimano le emozioni provate dall’altro, ma sono azioni finalizzati
ad attenuare il proprio stato di angoscia, adottando condotte auto consolatorie
come ad esempio succhiarsi il pollice o accarezzarsi.
Dal secondo anno, i bambini sono consapevoli dei vissuti degli altri e sono, inoltre, in grado di identificare specifiche
situazioni che possono provocare specifici vissuti emotivi nell’altro. Hoffman
parla di sofferenza empatica
quasi-egocentrica, la quale si caratterizza con l’aiutare l’altro. E’
questo il caso di un bambino di 2 anni e mezzo, che nel momento in cui porge un
giocattolo ad un compagno che piange, sembrerebbe dimostrarsi consapevole che
egli sta provando un’emozione negativa. Il bambino ha imparato ad attivare
comportamenti che riguardano il contatto fisico: carezze, baci, abbracci, aiuto
fisico, ed altri comportamenti tesi ad aiutare e consolare l’altro.
Intorno al terzo anno
di vita si sviluppa in modo più completo la capacità di oggettivazione di sé, e
il bambino acquisisce la consapevolezza che gli altri hanno pensieri e
sentimenti diversi dai propri. E' la fase della vera
empatia per lo stato d’animo di un’altra persona. In altre parole, la situazione che l'altro vive, sarà percepita dal bambino come se la vivesse in prima persona.
Dai 5-6 anni in poi, con lo sviluppo di una
maggiore competenza linguistica, il bambino interagisce con l’altro in modo più
appropriato; mostrano una capacità di discutere le proprie e le altrui emozioni (tale abilità migliora considerevolmente nel corso dello suo sviluppo), e, inoltre, grazie alla capacità di decentramento, sono più abili
nell'assumere il ruolo dell'altro, e si rendono conto che comunicare i propri
sentimenti ad un’altra persona può farli sentire meglio o può ferire l’altra
persona.
L’ultima fase, è
definita distress empatico oltre la
situazione. Dai 9 anni, i bambini, sviluppano
un senso di se stabile, e realizzano che gli altri hanno una propria identità che
influenza e può influenzare il comportamento e la risposta empatica. Intorno ai
13 anni, si raggiunge il pieno sviluppo dei meccanismi cognitivi implicati nel
processo dell’empatia.
Dott.ssa Stefania Alfano
Psicologa Psicoterapeuta
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