venerdì 2 ottobre 2015

I SETTE ELEMENTI DEL MOBBING


Il termine mobbing deriva dal verbo inglese “to mob”, che significa “assalire, molestare”, ed indica un comportamento violento ed aggressivo assunto da un soggetto o da un gruppo di soggetti nei confronti di altri.
Sebbene tale termine si applichi in contesti diversi, quali in quello familiare o scolastico, esso viene utilizzato dagli operatori giuridici nei soli rapporti di lavoro.
Nel nostro ordinamento non abbiamo una definizione legislativa del mobbing, ed a tale mancanza ha cercato di sopperire la giurisprudenza, offrendone un concetto alquanto indeterminato. Per mobbing deve intendersi quell’insieme di condotte di forte pressione psicologica ed, in alcuni casi, anche fisica, che datori di lavoro e colleghi possono porre in essere nei confronti di un singolo soggetto (cfr. C.d.S., sez. IV, 19.03.2013, n. 1609). Tali condotte si concretano in una serie di comportamenti a carattere persecutorio, siano essi illeciti o leciti se presi singolarmente,  posti in essere in modo sistematico e prolungato contro l’aggredito, nei confronti del quale tali condotte cagionano umiliazione ed angoscia. E’ necessario inoltre fornire la non facile prova del nesso eziologico tra la condotta vessatoria e l’evento lesivo, e la dimostrazione dell’elemento soggettivo (ex multis: Cass., sez lav. 11.06.2013, n.14643).

Attraverso tali condotte il mobber cerca di far lasciare il posto di lavoro alla vittima, e senz’altro a danneggiare la salute e la personalità del dipendente. Inoltre, la pressione psicologia non può non avere ripercussioni sul rendimento del dipendente, mettendone in discussione la sua professionalità.
Ultimamente, la giurisprudenza di legittimità, nell’intento di rendere chiara ed agevolmente riconoscibile la fattispecie, ha riconosciuto dei punti chiave, fissati da autorevole CTU, i quali se presenti contestualmente individuano il fenomeno del mobbing  (vedi: Cass. Civ., 15.05.2015, n. 10037). 
Tali elementi sono: 
l'ambiente, le aggressioni devono avvenire sul luogo del lavoro
la durata, non viene fissato un limite temporale, prevedendo solo che i comportamenti vessatori vengano posti in essere in maniera prolungata nel tempo
la frequenza, le azioni non devono essere isolate, ma sistematiche
il tipo di azioni ostili, quali, ad esempio, attacchi alla possibilità di comunicare, isolamento sistematico, cambiamenti delle mansioni lavorative, attacchi alla reputazione, violenze o minacce
il dislivello tra gli antagonisti, nel rapporto tra il mobber e la vittima, questa assume una posizione di inferiorità manifesta
l'andamento secondo fasi successive, il rapporto si sviluppa secondo fasi successive, attraverso le quali si giunge al momento conclusivo del pregiudizio dell’integrità psico-fisica dell’aggredito e dell’esclusione dal mondo del lavoro
l'intento persecutorio, il mobber attraverso la serie ripetuta di comportamenti aggressivi e violenti, svela l’intento unitario di sottoporre a continue molestie il dipendente.
Questi profili vanno accertati caso per caso al fine di verificare la sussistenza del mobbing, dal momento che esso può non configurarsi in alcune ipotesi, quali ad esempio, nelle ipotesi di attribuzioni di mansioni diverse al lavoratore quando queste non siano dequalificanti.

Dr.ssa Tiziana Alfano
Laurea in Giurisprudenza


lunedì 21 settembre 2015

Il cibo e le emozioni.



Mangiare è parte integrale e sostanziale del vivere sano. Il cibo e l’atto di mangiare sono associati, dalla maggior parte delle persone, a pensieri e sentimenti positivi e/o negativi. Esiste, ed è ormai ampiamente documentato da diverse ricerche, un forte e stretto legame tra il cibo e le emozioni. 
Venire nutriti da neonati è uno dei primi modi in cui noi sperimentiamo la relazione di accudimento. Mangiare rappresenta il modo in cui ci prendiamo cura di noi stessi e anche il modo in cui ci prendiamo cura degli altri. Il cibo fa parte, in linea generale, con il dare e il ricevere, con il nutrimento e la cura, con le persone e con le relazioni. 

Possono esserci diversi problemi alimentari: abbuffarsi, negare o limitare il cibo, alimentazione emotiva, mantenere una forma corporea che non rientra in un ambito salutare, incapacità di sentire la fame o la sete, difficoltà a scegliere e/o acquistare il cibo, difficoltà nello stabilire delle abitudini alimentari sane e regolari.
Tendo a sottolineare che l’attenzione e la conoscenza relativa ad abitudini alimentari differiscono da persona e persona, da famiglia a famiglia e da cultura a cultura, per questo è di fondamentale importanza rivolgersi a specialisti della salute alimentare se si vuole intraprendere un percorso specifico e personalizzato riguardo alla propria difficoltà con il cibo. I fattori che possono determinare l’insorgere di queste difficoltà con il cibo, possono essere diversi: situazioni familiari problematiche, contesto sociale, eventi fortemente stressanti, convinzione che la persona venga valutata solo in base al suo aspetto fisico, percezione distorta della propria immagine corporea, mancanza di autostima, perfezionismo. 


Resta il fatto che mangiare è una necessità, ci fornisce l’energia e i nutrienti di cui abbiamo bisogno per vivere. Sappiamo tutti, però, che gli eccessi, ovvero mangiare troppo poco o mangiare troppo, possono causare sintomi sia fisici che psicologici, possono riflettere condizioni di stress elevato non gestibili se non attraverso il cibo, portando la persona ad avere, in generale, una immagine del corpo disturbata e una relazione disfunzionale con il cibo. Può comportare delle conseguenze non sempre positive come ad esempio: un forte aumento di peso, un dimagrimento eccessivo, senso di colpa, vergogna, la rinuncia a cercare altre forme di gratificazione.
La relazione con il cibo diventa il mezzo che abbiamo a disposizione per esternare un malessere interiore, e/o per gestire emozioni troppo intense e dolorose. Così che per esempio, abbuffarsi, può diventare, in mancanza di altre possibilità espressive, l’unica risposta indiscriminata a difficoltà affettive ed emotive. Mangiando si possono placare un’aggressività non altrimenti esternata, così come attraverso il cibo si possono attenuare momentaneamente stati d’ansia o sintomi depressivi, il cibo può consolarci da delusioni o da diversi eventi traumatici e di disagio. Ma bisogna fare attenzione a questo meccanismo automatico: ad esempio se sono triste, mangio oppure se sono arrabbiato, non mangio. Ognuno di noi poi trova il proprio modo di usare il cibo per non sentire o non sperimentare le proprie emozioni. Diversi autori evidenziano, attraverso molte ricerche, come alla base di una relazione disfunzionale con il cibo ci sia l’evidente difficoltà della regolazione affettiva-emotiva.

Onno Van der Hart et al. (2013) nel suo capitolo Sviluppare abitudini alimentari sane, descrive alcune proposte per risolvere le difficoltà relative ad un’alimentazione sana, di seguito riporto alcuni dei suoi suggerimenti:
- Imparare a riconoscere e a comprendere le proprie difficoltà rispetto al cibo e all’atto di mangiare. Si potrebbe fare una lista delle eventuali difficoltà, e segnare da dove si vuole cominciare, ricordandosi di iniziare dai più facili prima di passare a quelli più complessi.
- Nota ciò che succede quando pensi ai tuoi problemi di alimentazione, come ad esempio avere difficoltà a fare la spesa o mangiare in maniera irregolare. Di quali emozioni e sensazioni sei consapevole?
- Se si hanno preferenze o avversioni marcate per alcuni cibi, si può imparare ad essere flessibili; si può, ad esempio, evitare temporaneamente un certo cibo oppure si può acconsentire ad un cibo che sentite avverso, ma con moderazione. 
- Può essere utile creare, insieme ad uno specialista, un diario alimentare.
- Gli schemi di alimentazione hanno spesso uno scopo emotivo sottostante: si può mangiare quando si è stanchi, annoiati, arrabbiati, e depressi. Quando si ha fame allora, ma non si ha bisogno di mangiare, nota quali sono le emozioni o i pensieri. Ci sono dei sentimenti o delle situazioni che potresti voler evitare mangiando? 
- Abbuffarsi è di solito un modo di regolare sentimenti insopportabili. Con l’aiuto di uno specialista si può iniziare a capire di più su alcune parti che entrano in gioco nel momento dell’abbuffata, e si possono cercare delle alternative adatte.
- Se si hanno difficoltà alimentari seri, bisogna essere onesti con se stessi e rivolgersi a specialisti. 


I problemi dell’alimentazione, come molti altri problemi, per essere risolti, possono richiedere del tempo. È importante, dunque, la motivazione al cambiamento, essere pazienti ed empatici verso se stessi, e concedersi di essere contenti di fare piccoli passi per volta. Essere consapevoli delle emozioni che si sentono in un dato momento, è il primo passo verso il cambiamento della  relazione che si ha con il cibo, e per affrontare la difficoltà che abbiamo con esso. Spesso, infatti, le diete falliscono perché sono basate sulla forza di volontà ma non su un percorso di conoscenza di se stessi e di che tipo di relazione ho con il cibo. 

Il cibo e le emozioni sono parti integranti e indispensabili della nostra vita, impariamo a gestire e a vivere le emozioni in maniera integrata ed equilibrata attraverso un‘ attenta consapevolezza di quei meccanismi che mettiamo in moto nella relazione che abbiamo con il cibo. La consapevolezza ci aiuta a renderci conto dei nostri comportamenti, a riconoscere gli automatismi, le azioni reiterate, inconsapevoli e impulsive che noi mettiamo in atto. Impariamo, dunque, a riconoscere i nostri stati interni, ad ascoltare e conoscere il nostro corpo, e soprattutto ad entrare contatto con le nostre emozioni e con i nostri bisogni, e a riconoscere il cibo come bisogno di nutrimento e non come il mezzo che abbiamo a portata di mano per evitare di ascoltare e vivere le nostre emozioni. 


Dr.ssa Stefania Alfano
Psicologa-Psicoterapeuta

giovedì 3 settembre 2015

Nutrizione & Sport

Gli sportivi amatoriali sanno davvero scegliere la giusta alimentazione? Vediamolo insieme.


L'acquisizione di una buona condizione fisica e il raggiungimento della miglior performance sportiva spesso non va di pari passo col benessere del nostro organismo. Si ricorre, infatti, a regimi alimentari fortemente restrittivi e punitivi come diete lampo, diete fai da te o all'utilizzo di pasti sostitutivi magari abbinati ad attività fisica regolare senza pensare che il mangiarein modo corretto è ancora più importante per chi pratica qualsiasi tipo di sport rispetto al sedentario. Per migliorare la propria condizione. Per migliorare la propria condizione di benessere è necessario un processo "correttivo" graduale. La soluzione è quella di adottare un comportamento alimentare equilibrato giorno per giorno, senza focalizzarsi su obiettivi di breve termine difficili e rischiosi per la nostra salute. Ci si deve sforzar di guardare oltre e cioè di darci come obiettivo ultimo l'apprendimento di uno stile di vita e alimentare corretto. Per lo sportivo, in particolare, sarà utile conoscere quali sono gli alimenti funzionali alla sua attività e in quali quantità, modalità e porzioni assumerli. Una dieta variata, composta dai cibi normali e freschi scelti tra i diversi gruppi alimentari, fornisce un adeguato apporto di tutti i nutrienti comprese vitamine e sali minerali. Ecco alcuni punti fondamentali per ottenere il massimo dalle performance sportive:
  • mai saltare pasti o spuntini
  • mai fare attività fisica a stomaco vuoto
  • non dimenticarsi di bere durante l'attività fisica
  • prima dell'attività fisica:
    _mattutina: colazione con fette biscottate o fette di pane integrali con un velo di marmellata (senza zuccheri aggiunti) tralasciando latte e derivati e magari aggiungendo un frutto fresco di stagione;
    _pomeridiana o serale: (2-2.30 ore prima): mangiare un piatto di pasta condito con pomodoro e 1cucchiaio di olio extra vergine a crudo e non carne, prosciutto, pesce o formaggio che allungherebbero i tempi della digestione;
    _lontano dai pasti: uno spuntino a base di pane e marmellata o una barretta o thé con biscotti secchi (meglio non frollini);
Prediligere inoltre:
  • latte parzialmente scremato al posto di latte intero;
  • yogurt magro rispetto a quello intero;
  • marmellata biologica senza zucchero aggiunto o light al posto di quella normale;
  • alimenti integrali e non raffinati (pane, pasta, derivati) i quali donano più sazietà e, grazie alle fibre,innalzano meno la glicemia;
  • pane comune normale o integrale senza grassi aggiunti al posto del pane condito;
  • spremuta o succhi senza zuccheri aggiunti al posto di succo con zucchero.


E' molto importante sottolineare come queste indicazioni non sono assolutamente personalizzate e non possono in nessun caso costituire un programma dietetico, ma sono esclusivamente consigli generici.

Dott.ssa Guerrera Mariacarmela
Biologa Nutrizionista

Lo sviluppo dell'empatia

Generalmente definiamo empatia, la capacità di immedesimarsi e comprendere le emozioni di un’altra persona. La parola deriva dal greco “εμπαθεία” (empatéia, composta da en-, "dentro", e pathos, "sofferenza o sentimento"), significa, appunto, “sentire dentro”.

Il modello di sviluppo di Martin Hoffman è considerato uno dei più esaustivi modelli di sviluppo dell’empatia. L'autore articola l’empatia in diverse capacità e competenze che, con il procedere dello sviluppo, diventano sempre più mature e sofisticate. In questo modello, la componente affettiva e la componente cognitiva interagiscono costantemente, e, in ciascuno stadio evolutivo, includono la motivazione ad agire positivamente in modo da alleviare il disagio altrui.

I primi segnali di empatia, appaiono sorprendentemente presto. Fin dalle primissime ore di vita sono osservabili nei neonati delle reazioni di distress empatico globale. Nei primi mesi di vita, i neonati non sono in grado di percepire se stessi e gli altri come entità distinte; percepiscono la sofferenza di qualcuno, come se fosse una propria l’emozione. L’empatia, in tale fase, si connota come una reazione affettiva, automatica e involontaria, che prende il nome di contagio emotivo ( ad esempio il pianto mostrato dai neonati in risposta al pianto di altri neonati).

Intorno al primo anno di vita, i bambini cominciano a percepire una prima distinzione tra sé e l’altro, e ad attribuire alle espressioni facciali un particolare significato. In questa fase, definita fase di distress empatico egocentrico, i bambini mimano le emozioni provate dall’altro, ma sono azioni finalizzati ad attenuare il proprio stato di angoscia, adottando condotte auto consolatorie come ad esempio succhiarsi il pollice o accarezzarsi.
Dal secondo anno, i bambini  sono consapevoli dei vissuti degli altri e sono, inoltre, in grado di identificare specifiche situazioni che possono provocare specifici vissuti emotivi nell’altro. Hoffman parla di sofferenza empatica quasi-egocentrica, la quale si caratterizza con l’aiutare l’altro. E’ questo il caso di un bambino di 2 anni e mezzo, che nel momento in cui porge un giocattolo ad un compagno che piange, sembrerebbe dimostrarsi consapevole che egli sta provando un’emozione negativa. Il bambino ha imparato ad attivare comportamenti che riguardano il contatto fisico: carezze, baci, abbracci, aiuto fisico, ed altri comportamenti tesi ad aiutare e consolare l’altro.

Intorno al terzo anno di vita si sviluppa in modo più completo la capacità di oggettivazione di sé, e il bambino acquisisce la consapevolezza che gli altri hanno pensieri e sentimenti diversi dai propri. E' la fase della vera empatia per lo stato d’animo di un’altra persona. In altre parole, la situazione che l'altro vive, sarà percepita dal bambino come se la vivesse in prima persona.
Dai  5-6 anni in poi, con lo sviluppo di una maggiore competenza linguistica, il bambino interagisce con l’altro in modo più appropriato; mostrano una capacità di discutere le proprie e le altrui emozioni (tale abilità migliora considerevolmente nel corso dello suo sviluppo), e, inoltre, grazie alla capacità di decentramento, sono più abili nell'assumere il ruolo dell'altro, e si rendono conto che comunicare i propri sentimenti ad un’altra persona può farli sentire meglio o può ferire l’altra persona.
L’ultima fase, è definita distress empatico oltre la situazione. Dai 9 anni, i bambini, sviluppano un senso di se stabile, e realizzano che gli altri hanno una propria identità che influenza e può influenzare il comportamento e la risposta empatica. Intorno ai 13 anni, si raggiunge il pieno sviluppo dei meccanismi cognitivi implicati nel processo dell’empatia.  

L’empatia, dunque, è una delle condizioni relazionali senza la quale noi non possiamo sentire, agire, ed essere, e senza la quale noi non potremmo avere la sensazione di fiducia in noi stessi e negli altri, e, ancora, senza la quale noi non potremmo avere sostegno e aiuto nei momenti di difficoltà. Educhiamoci a parlare, con i nostri bambini, delle emozioni, a parlare di ciò fa star male loro e gli altri; questo è un modo efficace per incrementare nei bambini le capacità empatiche, l’altruismo e le competenze prosociali. 

Dott.ssa Stefania Alfano
Psicologa Psicoterapeuta

mercoledì 26 agosto 2015

La mediazione nei luoghi di lavoro

All’interno delle équipe di lavoro, le tensioni latenti o i contrasti aperti, spesso, non soltanto incidono negativamente sulla produttività dell’ente, ma giungono a condizionare pesantemente la serenità delle persone coinvolte, anche di coloro che non sono gli attori principali della vicenda conflittuale. La sfera lavorativa, costituisce una quota importante della vita quotidiana, e l’atmosfera che vi regna, può essere un elemento capace di influenzare aspetti diversi dell’esistenza di ciascuno: dallo stato d’animo con il quale ogni giorno “ci si presenta al lavoro”, al rapporto con se stessi e con gli altri, inclusi familiari e coniugi. 

Una comunicazione strategica, è caratterizzata dal suo essere sempre orientata in direzione di un obiettivo da raggiungere. Il “persuasore” si propone di guidare l’altro ad assumere una particolare posizione, che lo porterà a modificare la propria percezione rispetto a una data realtà. Per farlo, egli si preoccupa di strutturare la forma della propria comunicazione, in modo tale da facilitare questo processo, piuttosto che andare alla ricerca di una condivisione di contenuti. 
Nelle strutture organizzate, come l’ambiente di lavoro, esistono dei sistemi di regole più o meno formali, che permettono alle persone che condividono ogni giorno quel luogo di lavoro, di agire secondo un obiettivo comune. Quando qualcuno infrange una o più di queste regole, aumenta la probabilità che nascano dei conflitti all’interno dell’ambiente lavorativo, ovvero il disequilibrio delle relazioni fra colleghi o fra colleghi e superiori e così via.  Sono molti i fattori che determinano il sorgere dei conflitti. Dalle caratteristiche dei gruppi, alle regole di interazione, passando per le differenze interpersonali, il modo in cui trattiamo gli altri e la percezione della situazione. 

Per quanto riguarda le caratteristiche dei gruppi, la situazione tipica è il formarsi dei cosiddetti “gruppetti”, che tendono inevitabilmente a dividere le persone, e spesso a far nascere dicerie e voci di corridoio, con conseguenze facilmente immaginabili. Le regole di interazione, sono molto importanti perché la loro infrazione determina quasi sempre lo scontro fra parti diverse e, in particolar modo, verso chi ha infranto quelle regole. 

Lo stessa rilevanza viene assunta dalle differenze interpersonali. Le persone sono diverse e non necessariamente ognuno ha il dovere di andare d’accordo con tutti. L’importante è riuscire a gestire le differenze. I conflitti si generano quando le persone non sono in grado di gestire diversità di pensiero, di genere, d’età o quando qualcuno ha il bisogno di prevalere sugli altri, qualsiasi siano le conseguenze di un tale atteggiamento. I pregiudizi o i forti stereotipi sulle persone, portano al formarsi di idee preconcette che compromettono le relazioni fra i collaboratori, e la nostra interpretazione degli eventi, influisce sui nostri comportamenti, e sul modo in cui ci rapportiamo agli altri. 

In una prospettiva di risoluzione dei conflitti, è necessario ricordare che è bene prima di tutto operare un' attenta analisi del conflitto, in secondo luogo, conviene analizzare i costi e i benefici della eventuale risoluzione, e, in ultimo, chiedersi se è più facile chiedere una modifica del comportamento altrui o adattare il nostro alla situazione. 


Una metodologia molto utile è la simulazione. Cioè si produce o si riproduce una situazione che potrebbe accadere. Non meno importante è il Role-play, all'interno di una simulazione che rappresenta un conflitto sociale. Tra le indicazioni principali per il Role-play, è bene ricordare, innanzitutto, che non c'è ruolo “giusto” o “sbagliato” e non ci sono ruoli/atteggiamenti “ridicoli”. Lo strumento ha un valore in sé (non è però il fine dell'esercizio). Ogni ruolo è importante ed è importante per gli spettatori/osservatori annotarsi ed osservare la strategia del protagonista così come “calarsi” nella parte cercando di vivere il ruolo in prima persona ed evitando di interpretare stereotipi (es. il dirigente becero, il funzionario tuttofare, il dipendente giornalaio). Dopo aver rappresentato la scena, si avvia una discussione, che analizzi il tipo di conflitto, la modalità di risposta data, e la modalità di risposta che si potrebbe dare. Infine, si passa alla valutazione finale, partendo da qualsiasi spunto ognuno esprime, il proprio stato d’animo, le proprie riflessioni, i suggerimenti e le valutazioni.

E’ bene quindi che, se c'è un conflitto nel gruppo, che emerga. La gestione di un conflitto presuppone il coinvolgimento delle persone in conflitto. Il conflitto, nasce dalla tendenza di due o più soggetti in relazione tra loro a soddisfare i propri bisogni partendo da una posizione di totale soggettività. La posizione soggettiva, vuol dire che la persona è perfettamente in contatto con se stessa, ed è in contatto con gli altri e con l'ambiente. Si hanno, dunque, tre livelli di  percezione conflittuale: percezione di sé, percezione di sé in rapporto con gli altri, e  percezione di sé in rapporto con gli altri nell'ambiente. 

La teoria dei bisogni di Maslow, dice che la deprivazione di uno specifico bisogno impedisce alle persone di poter evolvere verso il processo di autorealizzazione. Il  mantenersi in contatto con i propri bisogni, è quindi un elemento fondamentale di crescita personale e  di miglioramento della relazione fra sé e gli altri.


Dott.ssa Giuseppina D'Auria
Pedagogista

lunedì 10 agosto 2015

Finalmente in vacanza!


Dopo un anno di duro lavoro ed un inverno particolarmente freddo, le vacanze, finalmente, sono arrivate. Ma spesso andare in vacanza, si rivela una situazione fortemente stressante. Tra prenotazioni, valigie, code in auto, lunghe ore di volo, pasti irregolari, la vacanza diventa un momento di forte stress. Così accade che quello che doveva essere un momento di stacco dalla routine e dalle attività quotidiane, diventa, invece, momento di frustrazione, insoddisfazione, ansia, nervosismo, e di frequenti litigi con gli altri.

Allora cosa fare? 

Ognuno di noi ha un’idea di cosa sia vacanza (relax, divertimento, svago, benessere), e ha un’idea di dove voler trascorrere le vacanze (mare, montagna, città), ma capita che, già, il momento in cui dobbiamo decidere cosa, dove, e con chi, diventa momento di stress. In questa fase, è necessario considerare le proprie preferenze, i propri bisogni, e le proprie esigenze, e se si viaggia con la famiglia o con gli amici è utile che ognuno esprimi liberamente le proprie necessità; meglio esprimere le proprie idee prima, che ritrovarsi poi a dire all'altro: era meglio fare come pensavo io. La vacanza, è anche un’ottima occasione per condividere e confrontarsi, e per imparare ad ascoltare i nostri bisogni, e quelli degli altri.

Altro aspetto importante, è quello di non avere aspettative elevate rispetto alla vacanza, non idealizzarla sarebbe meglio. Idealizzando troppo la vacanza, si corre il rischio di imbattersi in una grande delusione. Chiunque di noi, appena chiusa la valigia, ha detto: questa volta voglio proprio rilassarmi, oppure questa volta voglio proprio divertirmi. Invece, capita che nel corso della vacanza, non siamo per nulla in relax e che non ci stiamo divertendo affatto! In tal modo, passeremo la vacanza a rimuginare su quello che doveva essere, focalizzandoci solo sugli aspetti negativi che stiamo vivendo, mentre, invece, occorre imparare a dirigere lo sguardo altrove, e a spingerlo al di là degli imprevisti e delle aspettative deluse; saper vedere quello che ci sta intorno con un sguardo nuovo e positivo, può essere un’occasione per crescere e migliorare. 

Capita spesso di affidare alle vacanze un potere quasi magico, ossia quello che in un breve periodo, tutto lo stress accumulato durante l’anno, possa magicamente sparire, per far spazio, alla serenità, al divertimento e al relax. Occorre, invece, accogliere il momento delle vacanze per quello che è in realtà: un momento di stacco dalla routine, un momento in cui il corpo e la mente si rigenerano, un momento in cui si ha la possibilità di stare di più in contatto con se stessi e con gli altri, un momento per aprirsi a nuove esperienze.



La vacanza è un'occasione per imparare ad essere consapevoli di quello che viviamo in un preciso momento. Dovremmo imparare a “staccare la spina”, e aggiungerei, a “staccare la connessione internet”, in modo da allontanarci dalle preoccupazioni del lavoro, dalle ansie delle attività quotidiane, dalle foto che non riusciamo a caricare sui nostri social, e godere interamente dell’atmosfera che stiamo vivendo in quel preciso momento, del cibo che stiamo assaporando, del paesaggio che stiamo guardando, e della compagnia che abbiamo accanto.

Non resta che augurarvi: Buone Vacanze.
Dott.ssa Stefania Alfano
Psicologa-Psicoterapeuta