giovedì 19 novembre 2015

QUESTIONI DI BIOETICA: IL CONSENSO INFORMATO E LO STATO VEGETATIVO C.D. PERSISTENTE

Negli ultimi anni, anche a seguito di drammatiche vicende di cronaca, come il caso Welby o il più recente caso Nuvoli, si è posto sempre in maniera più frequente il problema delle questioni di fine vita ed in particolare della possibilità di sospendere la nutrizione ed idratazione artificiali nei soggetti in stato di irreversibile perdita di coscienza.
La questione si pone affrontando un duplice quesito:
1) se la nutrizione ed idratazione artificiale debba considerarsi terapia o sostentamento vitale;
2) nella possibilità di introdurre nel nostro sistema il c.d. testamento biologico, in termini giuridici dichiarazione anticipata di trattamento, attraverso il quale il paziente esprime in un momento di lucidità mentale il suo consenso informato in maniera anticipata rispetto all’insorgere di una probabile malattia, negando o prestando il proprio consenso al trattamento sanitario.

Entrambi i quesiti pongono il loro fondamento sulla validità del c.d. consenso informato. Questo non è altro che una manifestazione di volontà del paziente, sorretta da una esaustiva informazione circa il trattamento terapeutico da farsi somministrare, attraverso la quale il soggetto sceglie di sottoporsi o di sottrarsi al trattamento consigliato. In mancanza dell’acquisizione del consenso, l’attività del medico risulta illegittima; così come un consenso presente ma invalido  porta alla illegittimità dell’attività del medico.
Tra i requisiti di validità del consenso informato, quello che interessa alle questioni di fine vita è quello del carattere ATTUALE E PERSISTENTE, in base al quale il consenso deve presiedere tutte le fasi del trattamento sanitario. Esso deve infatti essere prestato prima della sottoposizione al trattamento, ma deve tuttavia permanere per tutta la sua durata: si tratta infatti di un atto revocabile in ogni momento dal paziente.
Se, dunque, sorgono dei dubbi sull’applicazione di tale istituto nel caso di testamento biologico, ove per definizione la manifestazione di volontà viene anticipata all’insorgere di una probabile malattia degenerativa, nulla quaestio nel caso in cui un paziente in condizioni di lucidità mentale e una volta acquisite tutte le informazioni  del caso, scelga di non sottoporsi ad un trattamento sanitario. Il problema però sorge, anche in questo secondo caso, quando il paziente venga sottoposto  alla nutrizione o l’idratazione artificiale perché in tal caso si incontrano delle difficoltà nell’inquadrare giuridicamente tale attività.
Analizzando il caso appena esposto, nell’ipotesi in cui la nutrizione artificiale venisse considerata come terapia, la sospensione dell’alimentazione e della idratazione (detta anche accanimento terapeutico), troverebbe la tutela giuridica nell’art. 32 Cost., oltre che nel Codice di deontologia medica, dopo aver accertato in concreto la volontà espressa. Viceversa, qualora si attribuisse alla nutrizione artificiale il valore di sostentamento vitale, la sospensione rientrerebbe in una forma di eutanasia, in quanto il paziente non morirebbe a causa della sospensione della cura rifiutata dallo stesso paziente, ma per l’omissione di una forma di sostegno.

A livello internazionale, dal punto di vista medico e bioetico, l’orientamento prevalente è quello di considerare la sospensione della nutrizione ed idratazione artificiale come sospensione di una terapia, dunque come un trattamento medico liberamente rifiutabile, mentre in Italia il Comitato nazionale di bioetica si è espresso nel 2005 in senso contrario.  I contrastanti orientamenti hanno fatto sì che anche in Parlamento si aprisse un dibattito sulla vicenda in esame. A tal proposito preme indicare la proposta di legge sulle “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica di consenso informato e di dichiarazione anticipata di trattamento (DAT)”, i cui lavori sono fermi dal 2011 in Senato per la seconda lettura. Riportiamo quanto descritto nel corso dei lavori alle Camere: “ll progetto di legge sancisce preliminarmente i principi della tutela della vita umana e della dignità della persona, del divieto dell’eutanasia e dell’accanimento terapeutico, e del consenso informato quale presupposto di ogni trattamento sanitario. Provvede quindi alla disciplina, con una norma di carattere generale, del consenso informato, sempre revocabile e preceduto da una corretta informazione medica, e delinea le caratteristiche e i principi essenziali della dichiarazione anticipata di trattamento. Tale dichiarazione consiste nella manifestazione di volontà con cui il dichiarante si esprime, con determinate formalità, in merito ai trattamenti sanitari in previsione di un'eventuale futura perdita della propria capacità di intendere e di volere. Essa, tuttavia, non può riguardare l’alimentazione e l'idratazione, che devono essere mantenute fino al termine della vita, salvo che non abbiano più alcuna efficacia nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo.” La proposta di legge mira, dunque, a vietare quella che viene definita eutanasia, avallando l’ipotesi di chi attribuisce alla nutrizione artificiale il valore di sostentamento vitale.

Avv. Tiziana Alfano

martedì 17 novembre 2015

Cioccolato: conosciamolo meglio !

La convinzione di molti è che durante una dieta bisogna rinunciare completamente a dolci, pizza e cioccolato! Niente di più falso! Qualsiasi alimento può essere assunto nelle giuste proporzioni, anche quando si segue un regime dietetico.
In particolare, non è assolutamente da escludere dalla propria alimentazione il cioccolato, soprattutto se fondente, perchè ricco di qualità nutrizionali da non sottovalutare.
Il cioccolato fondente è considerato l’antidepressivo non farmacologico per eccellenza.
Grazie ad un mix di sostanze presenti nel cacao, il cioccolato fondente è in grado di agire sul nostro stato umorale, contiene un insieme di sostanze che incide sostanzialmente sull’equilibrio chimico del cervello.

A tal proposito vengono stimolati diversi neurotrasmettitori come la serotonina, che svolge un’azione importante nella regolazione del sonno, dell’umore, della temperatura corporea nonché dell’appetito; la feniletilamina è anch’essa un neurotrasmettitore che riproduce quello stato di benessere che proviamo quando siamo innamorati, forse il miglior rimedio contro la depressione; le metilxantine (caffeina, teobromina e teofillina) possiedono proprietà stimolanti che sollevano l’umore e aumentano la capacità di concentrazione;
l’anandamide, un acido grasso già presente nel corpo umano, in grado di stimolare le percezioni sensoriali e provoca una sensazione di benessere e felicità.
Infine, tra le proprietà benefiche del cioccolato c’è quella di stimolare il cervello a produrre endorfine che innalzano il livello dell’umore e diminuiscono quello del dolore, producono una generale sensazione di benessere e di felicità, stimolano il rilascio degli ormoni sessuali.
Il cioccolato fondente è ricco di antiossidanti; è anche l’alleato migliore del cuore e dell’attività vascolare, grazie alla presenza di flavonoidi, potenti antiossidanti che svolgono un ruolo fondamentale contro le malattie cardiovascolari, contrastano l’indurimento delle arterie e dei capillari, inoltre contribuiscono a contrastare le infiammazioni e la formazione di neoplasie. In più agisce anche sulla pressione sanguigna, grazie alla presenza massiccia di polifenoli, altra categoria di potenti antiossidanti; il cacao contrasta l’ipertensione, abbassando soprattutto i valori massimi, preservando l’uomo dalle malattie cardiovascolari.

Il cioccolato fondente non contiene colesterolo, essendo ricco di antiossidanti, assunto quotidianamente nelle giuste quantità (senza esagerare), è in grado di abbassare il colesterolo cattivo (LDL) e alzare quello buono (HDL). Tutti questi benefici riguardano solo il cioccolato fondente in quanto il cioccolato al latte è più calorico di quello fondente, inoltre ha anche più grassi (tra i quali una piccola parte di colesterolo). Rispetto al fondente ha poi una minore quantità di flavonoidi ossia gli antiossidanti in grado di neutralizzare i radicali liberi in eccesso nell’organismo. Inoltre, proprio l’aggiunta del latte al cioccolato riduce l’assorbimento delle sostanze antiossidanti del cacao. E’ per questo motivo che si consiglia soprattutto il cioccolato nero. Va detto però che il cioccolato al latte, come il fondente, contiene fosforo, vitamine, e soprattutto, ha il vantaggio di apportare più calcio che arriva a 262 mg per 100g in confronto ai 51 mg per 100g del fondente.
Per quest’ultima proprietà è spesso indicato, senza eccedere nelle quantità, nelle merende dei bambini. L'unico lato negativo di questo alimento: crea dipendenza!!!


Dott.ssa Guerrera Mariacarmela
Biologa Nutrizionista

IL MOBBING



“Il Mobbing è una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Il mobbizzato si trova nell'impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell'umore che possono portare anche a invalidità psicofisica permanente” (H. Ege, La valutazione peritale del Danno da Mobbing, Giuffré Milano 2002).

Il termine mobbing identifica un insieme di comportamenti violenti, sia di natura fisica che verbale, messi in atto da persona e/o un gruppo di persone, verso altri soggetti.
La vittima di queste vere e proprie persecuzioni si sente emarginata, calunniata, criticata: gli vengono affidati compiti dequalificanti, o viene spostata da un ufficio all'altro, o viene sistematicamente messa in ridicolo di fronte a clienti o superiori. Lo scopo di tali comportamenti può essere vario, ma sempre distruttivo: eliminare una persona divenuta in qualche modo “scomoda”, inducendola alle dimissioni volontarie o provocandone il licenziamento. 

Il termine venne coniato agli inizi degli anni settanta del XX secolo dall'etologo Konrad Lorenz, per descrivere un particolare comportamento aggressivo tra individui della stessa specie, con l'obbiettivo di escludere un membro del gruppo. Negli anni ’80 lo psicologo svedese Heinz Leymann, definì il mobbing: “un terrore psicologico che consiste in una comunicazione ostile e contraria ai principi etici, perpetrata in modo sistematico da una o più persone principalmente contro un singolo individuo che viene per questo spinto in una posizione di impotenza e impossibilità di difesa, e qui costretto a restare da continue attività ostili”. In Italia, si inizia a parlare di mobbing  intorno gli anni '90, lo psicologo del lavoro Haraid Ege descrive il fenomeno attraverso un modello a 6 fasi e definendo il mobbing come "una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro, esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte dei colleghi o superiori" attuati in modo ripetitivo e protratti nel tempo per un periodo di almeno sei mesi. Perché sussista il mobbing, non è sufficiente un singolo atto, ma è necessaria una pluralità di situazioni.

Subire violenza interpersonale ha un forte potenziale traumatico, che ampliando le preesistenti fragilità della vittima del mobbing, mina il suo assetto cognitivo-emotivo. I lavoratori vittime di mobbing mostrano alterazioni dell’equilibrio socio-emotivo (ansia, depressione, ossessioni, attacchi di panico, anestesia emozionale), alterazioni dell’equilibrio psicofisiologico (cefalea, vertigini, disturbi gastrointestinali, disturbi del sonno e della sessualità) disturbi a livello comportamentale (modificazioni del comportamento alimentare, reazioni autoaggressive ed eteroaggressive, passività), problemi cardiaci ( infarto miocardico, battito cardiaco accelerato), problemi al sistema immunitario (calo delle difese immunitarie), problemi dermatologici (dermatiti  psoriasi disturbi cutanei).
Le conseguenze del mobbing producono difficoltà di adattamento del soggetto alla situazione lavorativa, e una drastica riduzione dell’autostima, e la sensazione di incapacità nel gestire la realtà quotidiana. La vita della vittima di mobbing, nei casi più gravi, si trova così ad essere compromessa, con separazioni, divorzi e un progressivo ritiro anche dalla sfera sociale.
L’impatto di questo tipo di trauma sconvolge il proprio senso dell’identità. Si sviluppa un senso d’identità basato su percezioni di sé come impotente, colpevole, non amabile e non capace; si percepisce gli altri come pericolosi, inaffidabili, imprevedibili e, in generale si percepisce il mondo come ingiusto, caotico, ingestibile. Le aree del senso d’identità destabilizzate dall’evento, riguardano il sentirsi al sicuro, la fiducia in se stessi e negli altri, il sentirsi capaci di far fronte alle situazioni, la stima di sé, e l’intimità. 

“Qualsiasi interruzione del proprio senso di continuità e unicità connesso alla percezione di sé si accompagna invariabilmente alla perdita del senso della realtà e rappresenta l’esperienza emotiva più disgregante e devastante che un essere umano possa provare nel corso della vita”, come sottolinea Vittorio Guidano in "La complessità del Sé".

Per contrastare questo fenomeno in continua crescita, in Italia come in Europa, occorre una prevenzione a più livelli e un costante monitoraggio, in modo da prendere in tempo situazioni che potrebbero danneggiare la persona e anche l’azienda. Per affrontare il mobbing è necessario rivolgersi a professionisti in grado di gestire in modo multidisciplinare tutti gli aspetti legati a tale fenomeno: psicologici, medici, legali.

Dr.ssa Stefania Alfano
Psicologa Psicoterapeuta

domenica 8 novembre 2015

Il grounding: avere i piedi per terra.

Il radicamento o grounding, letteralmente significa avere i piedi ben piantati per terra. 
Il grounding fu ideato, negli anni Sessanta, da Alexander Lowen, psicanalista americano, ideatore della Analisi Bioenergetica, e viene usato per indicare il radicamento alla terra, al proprio corpo, alla propria vita e alla realtà in cui si vive. 
Lowen affermava: "Noi esseri umani siamo come gli alberi, radicati al suolo con un'estremità, protesi verso il cielo con l'altra, e tanto più possiamo protenderci quanto più forti sono le nostre radici terrene. Se sradichiamo un albero, le foglie muoiono; se sradichiamo una persona, la sua spiritualità diventa un'astrazione senza vita".
Lowen ci pone un importante quesito: riusciamo a restare radicalmente in contatto con noi stessi? I diversi stati che riguardano i livelli più alti del corpo se portati all'eccesso, possono sradicarci dalla nostra posizione e farci disorientare.

Il radicamento o grounding vuol dire sentirsi radicati nella propria autenticità e verità, accettando se stessi e i propri vissuti. Il "grounding" implica che una persona si "lasci scendere", che abbassi il suo centro di gravità, che si senta più vicina alla terra. Il risultato più immediato è di aumentare il senso di sicurezza. La persona sente la terra sotto di sé e i piedi che vi poggiano sopra. 

Sviluppando il grounding, si diventa più consapevoli, più capaci di esprimersi e si ha più padronanza di sé; quando si ha una propria "posizione", sappiamo dove siamo e chi siamo. Quando ha i piedi per terra, una persona ha la sua posizione, cioè, è "qualcuno". Il grounding, rappresenta il nostro contatto con le realtà di base, vuol dire essere in contatto con la realtà, fisicamente ed emotivamente: entrare in relazione con le sensazioni del corpo e con l'ambiente. In altre parole, si tratta di essere presenti nel qui e ora, con i piedi ben piantati per terra, in contatto con l’ambiente e in contatto con il proprio corpo, con le proprie sensazioni ed emozioni, con la percezione del proprio Sé. Queste qualità mancano nella persona che vive "tra le nuvole" o tutta nella testa, anziché nei piedi.
Praticando il "grounding" si stimola il più profondo sentimento di esistere, di auto-fiducia, di contare su Se stessi, favorendo un modo per relazionarsi all'altro senza paura di perdersi e di lasciarsi
andare.


Fonte: Alexander Lowen - Leslie Lowen
Dr.ssa Stefania Alfano
Psicologa Psicoterapeuta

giovedì 22 ottobre 2015

IL REATO DI “STALKING”: INDAGINE STATISTICA ED APPLICAZIONE DELLA NORMA.

La fattispecie di “atti persecutori” è stata introdotta nel nostro sistema penale solo in tempi relativamente recenti, ad opera dell’art. 7 D.L. 23 febbraio 2009, n. 11  che ha introdotto all’interno del libro secondo, titolo dodicesimo rubricato “Dei delitti contro la persona”, l’art. 612 bis, che punisce con la reclusione da sei mesi a cinque anni il fatto di chi “con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”.
Nel linguaggio comune, ma anche in quello degli addetti ai lavori, il delitto viene più spesso  chiamato “stalking”, termine che deriva dal verbo inglese to stalk, che appartiene al linguaggio tecnico della caccia e che letteralmente significa “fare la posta”, “avvicinarsi di soppiatto alla preda”. Nel linguaggio comune, esso è usato nel senso di “perseguitare”, “seguire”, “pedinare”, “braccare”, “molestare”, “disturbare”, “assillare”, “ricercare” o “fare qualcosa di nascosto”. In Italia il comportamento che integra la fattispecie ha assunto i caratteri della molestia e persecuzione. Generalmente, in linee di massima, si configura il reato di stalking ogni qual volta l’autore ricerchi in maniera persistente e ostinata di contattare la vittima, la quale invece reputi tali contatti come indesiderati, e tale ricerca  si esplica in una serie di  condotte intrusive, moleste, minacciose o violente, tali da suscitare nella vittima disagio, fastidio, angoscia, paura e preoccupazione. L’attività persecutoria si caratterizza per la reiterazione dei comportamenti intrusivi e assillanti, e per essere tali comportamenti indesiderati; dunque la relazione instauratasi è sostanzialmente unilaterale, voluta dal solo molestatore.

Attualmente, purtroppo, i reati di stalking sono sempre più frequenti e, da quanto appreso dalla quotidiana cronaca nera, spesso sfociano nella commissione di reati più gravi, quali l’omicidio della vittima. Visto il tragico epilogo con cui si conclude la vicenda, si dubita sulla efficacia degli strumenti giuridici forniti che dovrebbero impedire o scoraggiare lo stalker nel commettere ulteriori e più gravi reati. Stando ai dati forniti dalla Direzione Generale di Statistica pubblicata dal Ministero della Giustizia nel giugno 2014, “il 91,1% dei delitti di atti persecutori è commesso da maschi”, “in poco meno di un quinto dei casi analizzati la nazionalità dei soggetti coinvolti è straniera”, e “quasi un terzo degli autori è disoccupato o con lavoro saltuario”. Tale studio ha preso in esame la documentazione relativa ai procedimenti definiti presso i tribunali italiani negli anni 2011-2012, interessando 14 sedi di tribunale maggiormente rappresentative della realtà nazionale per dimensione e luogo. Dalla lettura delle sentenze risulta che per il 50,6% del campione il movente è quello del dichiarato tentativo di “ricomporre il rapporto”. Seguono la gelosia e l’ossessione. Nella maggior parte dei casi (73,9%) autore e vittima hanno avuto nel corso della loro vita una relazione sentimentale, solo 5 volte su 100 non hanno avuto alcun rapporto pregresso.

Veniamo ora all’identificazione del reato secondo il codice penale. Secondo l’art. 612-bis c.p. integra gli estremi del reato di atti persecutori la reiterazione della condotta criminosa, rappresentata da minacce e/o molestie. Secondo l’ormai consolidata interpretazione dottrinale e giurisprudenziale, per minaccia si intende la prospettazione di un male futuro e prossimo; per molestia, ogni attività che alteri dolorosamente o fastidiosamente l’equilibrio psico-fisico normale di un individuo. La condotta criminosa può realizzarsi secondo una molteplicità di forme idonee a produrre angoscia e paura nella vittima. A titolo esemplificativo, commette il reato di stalking chi segue ossessivamente sul luogo del lavoro la ex coniuge, ingerendo il lei un perdurante stato di ansia, costringendola a modificare le proprie abitudini di vita (vedi: Trib. Milano, 31 marzo 2009); chi rivolge apprezzamenti mandando baci, invita la vittima a salire a bordo dell’auto ed indirizza sguardi insistenti e minacciosi (Cass. Pen. 12 gennaio 2010, n. 11945); chi rivolge molestie e ricatti verbalmente, per posta elettronica, per telefono o messaggio attraverso i social network (cfr. Cass. Pen., 16 luglio 2010, n. 32404; Trib. Napoli, 30 giugno 2009). Per tutte queste condotte risulta necessario che le minacce o le molestie siano reiterate. La reiterazione evoca non solo una pluralità di condotte, ma altresì il loro verificarsi in tempi e contesti differenti. 
Oltre alla reiterazione degli atti persecutori, ai fini della configurazione del reato è altresì necessaria la produzione di almeno uno degli eventi menzionati dalla norma, ovvero:
1) un perdurante e grave stato di ansia o di paura nella vittima, che trova espressione in quelle forme patologiche di stress o di alterazioni dell’equilibrio psicologico del soggetto passivo.
2) un fondato timore per l’incolumità propria, di un prossimo congiunto o di persona legata alla vittima da una relazione affettiva, il quale può comportare (ma non è essenziale ai fini della configurazione del reato) il mutamento delle abitudini di vita della persona offesa.

Lo stalker è punito con una reclusione da sei mesi a cinque anni, salvo che il fatto non costituisca più grave reato. La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità. Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. Si procede tuttavia d'ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d'ufficio. Durante il procedimento penale può essere applicata la misura cautelare a scopo coercitivo di divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa di cui all’art. 282 ter c.p.p.

Avv. Tiziana Alfano

Fonte: Ministero della Giustizia,

mercoledì 14 ottobre 2015

Autunno: Tempo di Zuppe

Oramai si sa che per difendersi meglio dalle malattie tipiche della stagione invernale bisogna dare maggior importanza al tipo di alimenti che portiamo in tavola. 
Certamente è importante un’alimentazione bilanciata con tutti i nutrienti, ma con un occhio più attento ad alcune categorie di alimenti. 
La regola più importante se si vuole creare uno scudo alla aggressione dei virus, sta nel fare scorta di antiossidanti; è possibile trovarli soprattutto nelle verdure e nella frutta.
Tra i cibi da assumere quando si è ammalati, consiglio delle ottime zuppe di verdure, alimento antico e legato alla tradizione contadina, oggi rivalutato perché sano e leggero, raccomandato soprattutto nel caso delle malattie da raffreddamento perché si tratta di alimenti caldi e liquidi, fondamentali per alleviare la congestione nel caso di raffreddore.


Anche se considerata da molti antiquata, la zuppa dovrebbe fare parte del nostro menù, specialmente nella stagione fredda. Così piena di virtù che dà una mano a mantenere l’equilibrio nutrizionale e la salute. Tiene sotto controllo l’appetito, perché ricca di acqua e fibre, la zuppa riempie lo stomaco senza caricare di calorie. 100 g di Minestra di verdura apportano circa 51 calorie (61,7% carboidrati, 11,4% proteine, 27% grassi).

In più, data la sensazione di sazietà che essa offre, la zuppa è molto buona per diete e per l’equilibrio del metabolismo. Idrata il corpo: è una sorgente d’acqua: una zuppa contiene tra 85 e 90% di acqua. In più, contiene fibre vegetali che provengono dalle verdure, le quali sono meglio assimilate e migliorano la digestione. La zuppa è perfetta per la cena, idrata l’organismo in uno dei momenti chiave della giornata (non dobbiamo dimenticare che la sera, dopo che andiamo a dormire, il nostro corpo si rigenera).
Pulisce l' organismo. L'acqua in combinazione con le fibre dalla verdure, aiuta ad eliminare le tossine, a drenare i resti del cibo e purifica. Aiuta a mangiare più verdure, usandole con grande diversità, ed in una maniera più fresca.
Si mantiene il proprio equilibrio nutrizionale e si aiuta l’organismo a lottare contro le aggressioni giornaliere alle quali è esposto.
Permette il pieno con micronutrienti. Dato il modo di preparazione, le zuppe sono risorse molto ricche di minerali, che non si perdono, ma sono solubili e rimangono libere nel liquido. La zuppa contiene anche potassio in una quantità molto grande, magnesio, calcio, ferro, zinco, selenio, ma anche vitamine (la vitamina B e C per lo più).
E' consigliabile usare le verdure di colori diversi e mischiarle con prezzemolo, sedano, porro; se lessiamo la verdura, per esempio, non buttiamo via l´acqua di cottura ma utilizziamola per una minestra, che avrà anche proprietà rimineralizzanti, da evitare, invece gli altri tipi di cottura.
Se vuoi riempirti di vitalità, pensa solo alle verdure piene di vitamine, minerali e oligo-elementi contenuti nella zuppa!


In più è possibile rendere una zuppa un piatto unico grazie alla combinazione di cereali (farro), legumi (ceci) e verdure; pertanto diventa un pasto completo, composto da carboidrati complessi, proteine vegetali e fibre. Il piatto unico è il modo migliore per sfruttare la sinergia nutritiva tra cereali e legumi, che garantisce un ottimo apporto di proteine nobili. 
L'associazione cereali e legumi fornisce notevoli quantità di fibre, sali minerali, vitamine del gruppo B e sostanze antiossidanti e anticolesterolo. Ottima soluzione da consumare nelle giornate successive ai giorni di festa o in genere a quelli nei quali ci siamo concessi degli strappi alla regola.


Dott.ssa Guerrera Mariacarmela
Biologa Nutrizionista

Il difficile compito della famiglia: l’individualizzazione.

Uno dei sistemi più significativi nel quale ci si trova ad interagire è la famiglia.
La storia, il vissuto, l’atmosfera familiare che sperimentiamo, qualificano e, a volte, determinano l’esperienza di ogni componente. Tutto ciò che come figli abbiamo sperimentato nella vita in comune con i nostri familiari (attraverso messaggi detti e non detti, attraverso quei gesti, quelle modalità di comportamento), entra a far parte della nostra memoria, e va ad incidere profondamente nella strutturazione della nostra personalità. 
La famiglia può essere concepita come un sistema interiorizzato di relazioni, le cui funzioni psichiche sono articolate e si influenzano reciprocamente: pensieri, affetti ed azioni interagiscono. Il legame crea una relazione di reciprocità tra due o più persone, e fa intervenire meccanismi proiettivi e differenti forme di identificazione, che si intersecano a loro volta  (Hughes, 2007). 

La famiglia è come sistema auto-correttivo, dove si stabiliscono regole e proibizioni, ma se un membro della famiglia rompe una regola, gli altri si sentono subito attivati finchè costui si confermi di nuovo alla regola. Quanti di noi, all’interno della propria famiglia, hanno sentito la necessità di infrangere una regola; con fatica cerchiamo di scardinare delle regole troppe rigide per il nostro modo di essere e che impediscono alla nostra personalità di potersi esprimere liberamente, con molta fatica cerchiamo di difendere quello che stiamo per realizzare, ma immancabilmente il sistema famiglia si attiva affinchè tutto ritorni ad essere come prima, affinchè quelle regole vengano di nuovo seguite e rispettate. Non si può disobbedire a certe regole, e non si può essere “diversi”. 

Uno dei compiti più difficili per la famiglia, è proprio quello di sostenere e incoraggiare la crescita dei suoi membri, pur adeguandosi ad una società in continua transizione e pur cercando di combinare insieme sia il senso di appartenenza e sia il senso di differenzazione e individualità di ciscun membro. La famiglia, infatti, rappresenta il contesto relazionale privilegiato in cui viene favorito o ostacolato il processo di individuazione; processo fondamentale per il raggiungimento di una vita sufficientemente autonoma e libera. Come sostiene Bowen (1995), il processo di differenziazione implica diventare se stessi al di fuori del proprio Sé, progettare un percorso personale attraverso il proprio sistema interno di guida, invece di correggere il tiro in base alle esigenze degli altri; ma, in realtà, il processo di differenziazione viene percepito come un atto di slealtà e vissuto anche senso di colpa, tanto più forte è l'unità simbiotica della famiglia.
La differenzazione del sè, si riferisce alla misura in cui gli individui distinguono i processi emozionali e quelli intellettuali, e il loro grado di separazione dalla famiglia di origine. Individui altamente differenziati sono in grado di prendere decisioni e di fare problem solving senza rispondere a stimoli emozionali interni. Al contrario, una persona risulta scarsamente differenziata quando il suo funzionamento intellettuale è dominato da emozioni, e vi è confusione tra pensiero e sentimento. 


Dr.ssa Stefania Alfano
Psicologa-Psicoterapeuta