giovedì 11 dicembre 2014

La costruzione del legame di coppia: perché ci si sceglie?

L’amore è un impulso potente che spinge due persone a legarsi, e può essere visto come il frutto dell’evoluzione e della selezione naturale e, pertanto, può essere assimilabile all’amore che lega il bambino alla madre. Questo non significa che si ama il proprio partner come se questi fosse la propria madre, ma che esistono delle somiglianze sostanziali fra i due legami a tal punto che nella sua struttura universale, il rapporto madre-bambino può essere utilizzato per capire la complessità del legame d’amore fra gli adulti.
 Il legame madre-bambino è complementare, in quanto c’è un piccolo che chiede aiuto di fronte ad un pericolo, a seguito dell’attivazione del suo sistema di attaccamento; dall’altra parte, c’è un adulto che dà cure perché si attiva il suo sistema di accudimento nei confronti di chi chiede aiuto. 
Il legame di coppia, invece, è un rapporto caratterizzato dalla reciprocità, che a differenza del primo, a secondo delle situazioni, attiva sia il sistema dell’attaccamento sia dell’accudimento (Attili G., 2004). Infatti, le componenti fondamentali che caratterizzano la relazione di coppia come legame di attaccamento sano, sono simili alle componenti del legame madre-bambino: mantenimento del contatto, rifugio sicuro, il bisogno di sentirsi rassicurati e confortati dal partner, base sicura quando il partner è percepito come disponibile in caso di necessità e ansia da separazione quando il partner è assente.
Nel momento in cui c’è una distorsione in entrambi i tipi di legame, per esempio è la madre a chiedere aiuto e non capisce i bisogni del bambino, oppure il partner non assolve le funzioni di sicurezza e protezione (es. un tradimento), la relazione diventa patologica e patogena.

Quali sono le fasi che caratterizzano il legame di coppia?
La prima fase è caratterizzata dal desiderio e dall’attrazione: la coppia sperimenta un “delirio passionale” o “simbiosi”, durante il quale l’idealizzazione del partner è estrema, si pensa a lui come l’anima gemella ed è l’oggetto che soddisfa ogni desiderio. Si è molto egoisti rispetto ai propri bisogni che hanno la precedenza sul resto e che, comunque, sembrano essere totalmente appagati dall’altro. Questa prima fase si interrompe, per favorirne il passaggio ad una nuova, caratterizzata da conflitti, da ambiguità e da ricerca della differenzazione, inoltre, si manifestano le primi crisi d’ansia utili per lo scioglimento della simbiosi. Questa fase corrisponde al periodo della contro-dipendenza, della disillusione, della sofferenza dovuta alla scissione tra l’ideale e il reale, nascono i primi sintomi di incompatibilità e si comincia a pensare alla necessità di creare una giusta distanza. Una buona elaborazione di questa fase ne permette il passaggio alla successiva.
L’indipendenza caratterizza la terza fase. Si tratta di un periodo di sperimentazione, la coppia sente l’esigenza di uscire dal nucleo a due e di esplorare l’esterno. E’ forse il periodo più problematico e pressante dal punto di vista conflittuale; si presentano litigi e crisi emozionali legate all’alternarsi di rimpianti e speranze.
L’ultima fase dell’interdipendenza si basa sull’accettazione dell’integrazione di un legame imperfetto: i partner giungendo alla consapevolezza che l’altro possa essere imperfetto e che la scelta del partner è indubbiamente collegata ai modelli di attaccamento appresi nel tempo, attuano un processo di riavvicinamento che permette loro di acquisire una costanza dell’oggetto d’amore che travalica i conflitti e permette il riaccendersi del desiderio (Mahler M.,1968).
I processi di separazione e individuazione giocano, quindi, un ruolo fondamentale nella costruzione della coppia. Ed è a quel punto che ogni partner porta nella relazione i propri modelli operativi interni, gli schemi cognitivi, e le rappresentazioni di sé e degli altri e i suoi miti. La scelta del partner può, quindi, essere considerata come espressio­ne di questa struttura che, come i miti, si costruisce, si modifica nel tem­po e viene a collocarsi den­tro una serie di rapporti in continua evoluzione, in cui si creano sem­pre nuove connessioni o divergenze rispetto al significato originario. La decisione iniziale apparentemente spontanea e libera, non ‘ragionata’, acquista un senso solo alla luce di quello che accade in segui­to e dall'intreccio tra i miti dell’uno e dell’altro (Angelo C., 1999). Quando il mito è rigido, non evolutivo, incapace di adattarsi alle trasformazioni delle fasi del ciclo vitale, si crea un rimescolamento di “infedeltà irrisolte”, di prescrizioni familiari implicite, di attese, di idealizzazioni di sé, del partner e della relazione, e la coppia si avvia verso una fase di “stallo”.  Possiamo considerare lo stallo e le difficoltà di coppia, non solo come momenti di crisi e di difficoltà ma anche come “sforzi riparativi per correggere, controllare, cancellare e difendersi da storie disturbanti appartenenti alle famiglie d’origine”. La maggior parte delle persone non “vede” il partner per quello che esso è, ma viene caricato da aspetti appartenenti al proprio passato, a quelli della propria famiglia d’origine e da aspetti scissi di sé (Framo, 1999). 

La coppia verrebbe ad essere imprigionata in una spirale d’incomprensioni e fraintendimenti in cui le rotture delle comunicazioni affettive non sono seguite da processi di riparazione. Essere “interdipendenti”, in questo contesto, significa che gli stati della mente dei due individui si influenzano reciprocamente però in senso negativo (Siegel, 2001). Gli aspetti che portano non alle incomprensioni, ma alla rottura del legame di coppia, sono da situare all’ultimo stadio di questo continuum, e vanno ricercati nei contesti relazionali traumatici, all’interno dei quali, i rispettivi partner hanno appreso o la sfiducia nell’altro (es. un genitore imprevedibile) o la paura dell’intimità affettiva (oscillando tra la ricerca di vicinanza e di separazione), oppure comportamenti inappropriati di controllo della relazione (Liotti, Farina, 2011). Questo apprendimento, all’interno della relazione di coppia disfunzionale, viene riproposto attraverso schemi ripetitivi e rigidi come la svalutazione, la disconferma, e la ridicolizzazione. Ne viene fuori una situazione paradossale, in cui il partner prova dolore per queste modalità e contemporaneamente è costretto a chiedere aiuto a colui che la infligge. 

L’obiettivo di una psicoterapia di coppia,  è quello di aiutare la relazione a superare l’impasse. Lo scopo diventa quello di riparare le ferite di attaccamento offrendo, all'interno del percorso terapeutico, una esperienza tangibile di disponibilità, empatia e affidabilità. La coppia, sciogliendo le proprie difese, può recuperare la fiducia e avviare un sano funzionamento. 

Stefania Alfano, Angela Funaro, Iole Martino
Estratto dall'articolo pubblicato sulla rivista Psicologi Calabria


lunedì 13 ottobre 2014

Colori & Sapori d'Autunno

Con l'arrivo dell'autunno, scegliamo un'alimentazione equilirata sfruttando al meglio frutta e verdure di stagione.

L'autunno è appena iniziato, le giornate si accorciano e il freddo inizia ad arrivare, facendo crescere la voglia di alimenti dannosi per la linea (come i dolci ad esempio) verso i quali solitamente si è attratti con l’avvicinarsi del freddo. L’organismo, infatti, produce melatonina che crea un forte bisogno di carboidrati e zuccheri a tutto svantaggio del fegato, in primis, e del colesterolo “buono”.

E' importante quindi organizzarsi per seguire un'alimentazione equilibrata, sfruttando al meglio frutta e verdure di stagione colorate, ricche di vitamine e antiossidanti che aiutano a proteggere l'organismo, riempiono lo stomaco e soddisfano il palato, ma soprattutto che prevengano i mali di stagione.



Le mele sono le protagoniste assolute: ricche di fibre e povere di calorie, proteggono l’organismo dal rischio di tumori e malattie cardiovascolari. Le pere, invece, sono perfette per combattere l’azione acidificante legata al consumo di alimenti di origine animale, e sono un vero e proprio concentrato di salute: contengono l’85% di acqua, il 9% di zuccheri (per lo più fruttosio), fibre, potassio, vitamine e flavonoidi. L'uva ha componenti antiossidanti, risulta avere proprietà antitumorali, antinfiammatorie e protettive dell’apparato cardiovascolare, mentre i semi esercitano un’azione cardio e neuroprotettiva (nonché lassativa). Autunno è anche sinonimo di funghi con il loro basso contenuto calorico (solo 20 calorie per 100 grammi), e consistente apporto di fibre (ecco spiegato il senso di sazietà dopo averli mangiati!) e all’alto contenuto proteico.

Serve
inoltre individuare le verdure che l'autunno ci offre e valutare se acquistarle fresche o surgelate considerando il tempo che si ha a disposizione per cucinarle, in entrambi i casi avremo una buona percentuale di elementi nutritivi.
La stagione autunnale offre varie tipologie di vegetali come zucca, barbabietola, broccolo, cavolo cappuccio, funghi, cavolfiori, cavoli, cavolini di Bruxelles, porri, finocchi, bietole a coste, indivia belga, rapa e altre ancora, particolarmente versatili e gustose.

Una volta individuate le verdure che soddisfano maggiormente, il consiglio è di mangiarne due o tre porzioni al giorno cercando di variare il più possibile, ad esempio cambiando colore ad ogni pasto. Senza dubbio la vostra linea ne trarrà giovamento in quanto le verdure aiutano a riempire lo stomaco tenendo lontana la fame. Se poi si scelgono vegetali dolci come la zucca, si soddisfa il palato senza esagerare con le calorie.

Ogni colore ha proprietà differenti e perciò utilissime al nostro organismo, soprattutto in questa stagione di passaggio nella quale ci si deve adattare piano piano al clima freddo. Via libera perciò alla fantasia con ricette di ogni tipo, ad esempio sformati, verdure gratinate al forno, vellutate e creme, lasagne vegetariane, pasta condita con verdure saltate, polpette vegetali, ecc. .

Per un autunno all’insegna di benessere e salute è bene che questi alimenti siano i protagonisti della dieta quotidiana, che come sempre dovrà essere bilanciata e personalizzata. Con un occhio all’ attività fisica, naturalmente!
Per concludere ricordate che le buone abitudini si imparano da bambini, perciò se siete genitori, insegnanti o nonni stimolate i vostri bimbi cercando al supermercato o nel frigorifero verdure di colori diversi e cucinate con loro, poco alla volta mangiare verdure diventerà un bel gioco!

Dott.ssa Guerrera Mariacarmela

Biologa Nutrizionista

giovedì 2 ottobre 2014

Cosa mettere nello zainetto?!

Con l'autunno appena arrivato, adulti e bambini, ritornano alle loro care abitudini e alle regole che scandiscono le giornate, ignorate durante le vacanze. Per i nostri piccoli le vacanze rappresentano spesso l’assenza di regole anche dal punto di vista alimentare: si svegliano più tardi, spesso saltando la colazione e la merenda, consumano più fuori-pasto e pranzano e cenano con orari molto diversi dal solito.
Ed eccoci qui, al ritorno a scuola, e ai famosi e tanto raccomandati 5 pasti giornalieri.

La merenda è anch’essa un pasto fondamentale per la giornata alimentare del bambino, in quanto serve da “spezza-fame” ed evita che le ore di digiuno tra la colazione o, per chi malauguratamente non la fa, la cena della sera precedente e il pranzo, o tra il pranzo e la cena diventino eccessive, portando ad avere una gran fame al pasto successivo e ad alimentarsi in modo quantitativamente e qualitativamente scorretti.
Dato il suo ruolo di “spezza-fame”, la merenda non dovrebbe fornire troppe calorie, giusto il 5-10% di quelle che il bambino, in base alla sua età e sesso, dovrebbe consumare nell’intera giornata. Per la maggior parte dell’età pediatrica diciamo che siamo sull’ordine delle 70-100 kcal.


Ma, pur essendo così importante, la merenda difficilmente viene gestita correttamente dagli adulti, che tendono spesso o a sottostimarla, facendola così anche saltare spesso ai bambini, vuoi per una sorta di recupero calorico, vuoi dandosi la giustificazione che il bambino non ne sente la necessità; o, viceversa, a sovrastimarla, fornendo alimenti o porzioni molto più vicine a quelle di un pasto. La merenda non deve determinare un eccessivo introito di calorie, zuccheri e grassi saturi, altrimenti si finisce per saziare troppo il bambino, facendogli saltare il pranzo e/o la cena e alterando i ritmi alimentari della sua giornata.
Per cui bisogna aiutare i nostri bambini a consumare una merenda corretta dal punto di vista nutrizionale, ma cosa scegliere per l’intervallo dei più piccoli?
L’ora della merenda dei bambini si sa, può essere molto rischiosa in quanto è un momento nel quale di solito l’appetito sale e crescono le tentazioni di snack, merendine ipercaloriche, zeppe di grassi saturi, coloranti e conservanti.
Il modo più semplice per evitare questi rischi è quello di giocare d’anticipo e attrezzarsi per invogliare i bambini, anche nell'ora dello spuntino, a scegliere un’alimentazione sana e nutriente come ad esempio le merende preparate in casa.
Ecco qualche consiglio utile su come organizzare la merenda dei bambini a scuola in maniera sana e genuina.

Nutrire i bambini in maniera sana non significa escludere completamente i dolci dalla loro alimentazione. L’importante è ridurre al minimo il consumo di merendine confezionate e sostituirle con un dolce preparato in casa con ingredienti genuini e senza conservanti.
Un' alternativa dolce e golosa per la merenda dei bambini a scuola è anche una bella fetta di pane e marmellata. Un’idea semplice e classica ma anche sana e genuina soprattutto se la marmellata la preparate in casa con la frutta di stagione.

I bambini si sa, non amano particolarmente la frutta. Per far apprezzare loro mele, arance, mandarini, melone, uva e così via, il segreto è presentarla loro sotto forme creative e fantasiose.
In alternativa alla frutta fresca riempite un piccolo contenitore ermetico con un po’ di frutta secca, uva passa, mandorle, noci e nocciole: l’importante è verificare prima con il pediatra che i piccoli non siano allergici a tali alimenti e non esagerate con le quantità.

Infine, la merenda più classica in assoluto: il panino imbottito; per una merenda sana e nutriente, provate a camuffare la lattuga con il formaggio o il tipo di affettato che il bimbo preferisce. Un' altra scelta è uno yogurt bianco, cremoso o alla frutta a cui accompagnare una buona manciata di cereali.

Serve non sovrastimare il consumo energeticodato da un’ora di sport, valutando criticamente il tempo che realmente viene passato in attività di movimento ( e se ci fate caso, spesso equivale a circa mezz’ora, decisamente non molto!).
Non è necessartio compensare con la merenda pomeridiana il mancato pranzo, perché in questo modo sosterremo il bambino nel suo rifiuto della mensa scolastica; invece, con fermezza, invitiamolo a consumare o almeno assaggiare il pranzo, e non cediamo alle proteste di aver fame all’uscita di scuola: il pranzo lo aveva a disposizione, se lo ha rifiutato, la prossima volta non lo farà!


E' molto importante abituare i bimbi a non mangiare sempre gli stessi cibi, ma soprattutto offrire loro delle valide alternative alle merendine confezionate, quando frequentano la scuola: innanzi tutto per motivi di salute (l'obesità tra i bimbi cresce in modo preoccupante), ma anche perchè occorre fornire loro la giusta energia per lo studio. 

Dott.ssa Guerrera Mariacarmela
Biologa Nutrizionista

domenica 21 settembre 2014

Shiatsu e Parkinson

Lo Shiatsu si esegue con pressioni manuali su tutto il corpo. Il suo scopo è quello di ristabilire l’armonia del flusso dell’energia vitale nonché di stimolare le funzioni degli organi della persona, aiutandola a sostenere e attivarne i processi vitali, condizioni indispensabili per poter conquistare e mantenere uno stato di benessere e rilassamento sia fisico che mentale.
Dalla pratica è emerso che il trattamento ha effetti immediati su vari livelli, nelle persone con Parkinson. Si arriva quasi sempre a un buon rilassamento generale, accompagnato da una sensazione di scioltezza e di maggiore stabilità, una postura visibilmente più eretta, miglioramento delle affezioni dolorose. L’umore migliora, le persone si sentono più sollevate, sorridenti e più serene.
Il dialogo con l’operatore all’ inizio e alla fine del trattamento, la possibilità di aprirsi, parlare di sé e di essere ascoltati e accolti, costituiscono un’occasione importante che interrompe l’isolamento in cui la persona si trova, dovuto alla sua condizione di ammalato. L’energia vitale della persona risulta riattivata sia a livello fisico che psichico. La sensazione di benessere, accompagnata da una sensazione di maggiore scioltezza nei movimenti, miglioramento del sonno e della autonomia nei movimenti, continua anche per uno o due giorni dopo il trattamento.

Angela Scognamiglio
Insegnante Shiatsu 

domenica 14 settembre 2014

L'ALTRO COME PROSSIMO: DALLA RELAZIONE-LEGAME ALLA RELAZIONE DI CONTIGUITA'

Le figure dell'Alterità come limite, concorrente, origine e destino si concretizzano all'interno di uno scenario che è la relazione, il legame. La relazione è quel legame emotivo che influenza il comportamento. Abbiamo una relazione quando l'Altro "altera" il comportamento che avremmo avuto se non fosse entrato nel nostro orizzonte, e quando a nostra volta siamo l'Altro per l'Altro.
La relazione così intesa è un punto di un cerchio comprendente libertà, differenza-pluralità e realismo. Il cerchio è una forma ricorsiva senza un punto di inizio-fine, e dove ogni punto è insieme causa ed effetto di ogni altro.
La libertà è quella di attuare il possibile, concedere all'Altro ed a sé il potere di essere un punto di cambiamento, accettare che la relazione possa dirottare la vita. La differenza-pluralità è concepire la relazione come incontro fra diversità, interpersonali ed intrapsichiche. Il realismo è l'importanza del soggetto vero, concreto, carnale rispetto al soggetto ideale, astratto, generale.
Cosa accade se la relazione assume una forma "puntuale", ad arcipelago, in cui i soggetti non si influenzano ma sono semplicemente "prossimi"? E' frequente oggi sentir parlare di incontro e relazione anche per situazioni di questo tipo. Per esempio, si dice che i fedeli "incontrano" il Papa, quando diecimila persone stanno sulla piazza di S. Pietro sotto la finestra del Pontefice. Si chiamano "colleghi" coloro che fanno lo stesso tipo di lavoro, anche se non si sono mai parlati. Si chiamano "compagni" quelli che militano nello stesso partito o fanno lo stesso corteo. Partecipare allo stesso concerto della rock star di turno, fa sentire "vicini" i presenti. Come "prossimi" si sentono quelli che assistono insieme allo stesso struggente tramonto.
Spesso si usano termini come "relazione e "Altro" in quelle situazioni in cui esiste solo una "contemporaneità emozionale". Avere emozioni simili sembra sufficiente per definire la relazione. Questa relazione non è un legame, si scioglie allontanandosi, né implica influenza reciproca o cambiamento. La figura prevalente qui non è il cerchio, ma l'insieme di punti inseriti in uno stesso "campo" spazio-temporale. Anzi, spesso basta lo stesso "campo" psicologico, cioè il vissuto di contiguità e prossimità, a prescindere dalle variabili spazio-temporali. Ci possiamo sentire in prossimità coi trapassati, ma anche con soggetti lontani che non abbiamo mai visto.
Il passaggio dalla relazione-legame alla relazione-prossimità è caratterizzato da tre elementi.
Uno è la sostituzione della dimensione reale alla dimensione ideale. Abbiamo sempre meno relazioni fra persone e sempre più relazioni fra idee. Solidarizziamo coi "disabili", senza avere alcun legame con l'anziana in carrozzina del piano di sotto. Manifestiamo per i diritti umani delle donne islamiche, senza necessariamente portare rispetto per le donne che lavorano nel nostro ufficio.
Un altro elemento è il prevalere dei valori simile-singolare sui valori differente-plurale. E' "prossimo" chi sentiamo simile, e le relazioni di similarità corrispondono ad una concezione interpersonale e intrapsichica come mono-dimensionale.
Il terzo elemento è il determinismo, contrapposto alla libertà. Le relazioni di prossimità danno conferme, senza cambiare. Rassicurano, facendo prevalere la ripetizione e l'eco sulla variazione o la biforcazione.







Il passaggio dalle relazioni-legame alle relazioni di prossimità/contiguità è insieme effetto e causa di numerosi fenomeni che interessano la vita quotidiana attuale. Il primo è che diminuiscono le relazioni totali a favore di quelle parziali. Stiamo sostituendo le relazioni intime, profonde e polidimensionali con relazioni di superficie e monodimesionali. Le relazioni per "fare insieme" prendono il posto delle "relazioni per essere-stare insieme". Sempre meno legami riescono a soddisfare la pluralità dei nostri bisogni. L'urgenza dei quali viene soddisfatta moltiplicando gli ambienti che attraversiamo. Questo offre una spiegazione della ansiosa mancanza di tempo che sembra colpire tutti, malgrado il tempo di lavoro sia mediamente diminuito. Quasi tutti lavorano -salvo alcune minoranze- meno, e quasi tutti hanno meno tempo. Il fatto è che molti, di fronte alla diminuzione delle relazioni-legame, cercano di sostituirle con situazioni di prossimità che vengono moltiplicate: abbiamo "vicini" che condividono con noi le esperienze di fitness, "prossimi" con cui balliamo, contigui che vivono un viaggio con noi, simili con cui abbiamo idee uguali. Rincorriamo una miriade di figure di prossimità, per sostituire le relazioni-legame che non siamo più in grado di, o vogliamo sempre meno, intrecciare.


Dott.ssa Giuseppina D'Auria
Pedagogista 

lunedì 1 settembre 2014

La costruzione del Sé

E’ all’interno della famiglia che ciascuno sviluppa il senso di sé, come individuo autonomo che appartiene e può dipendere da un certo gruppo. 
La famiglia d’origine ha un ruolo essenziale nello sviluppo del sè e dell’individuazione. Infatti, alcuni aspetti della nostra personalità vengono rinforzati, altri aspetti, invece, vengono scoraggiati, mentre altri limitati. L'aria che il bambino respira nel suo ambiente familiare porta alla strutturazione di elementi della personalità, del suo carattere, e del suo essere nel mondo. Grande influenza hanno anche i messaggi non verbali, comportamentali e gestuali; il bambino osserva e registra quotidianamente le azioni dei genitori, e, soprattutto, nei casi di incongruenza tra parole e fatti, tenta di dare un significato a quello che vede intorno a sé.
Le relazioni familiari contengono, intessute tra loro, le caratteristiche della sicurezza del legame di attaccamento e dell’intersoggettività. All’interno della relazione si promuove un senso di sicurezza, ognuno conosce/è conosciuto, sente/viene sentito, percepisce/è percepito, dà/riceve in modo che ognuno di queste diadi genera, alla presenza dell’altro, un senso di sicurezza psicologica crescente (Huges, 2007).
L’attaccamento è  un sistema che regola prima di tutto la quotidianità, non ha a che fare con il verbale, è  una procedura comportamentale, è qualcosa che guida il comportamento, è qualcosa ci fa avvicinare a qualcuno che giudichiamo in grado di darci una mano nel momento di difficoltà, una figura protettiva: la figura di attaccamento. Questo avviene in situazioni in cui c’è qualche cosa che ci fa percepire un abbassamento delle condizioni di sicurezza, e noi non ci sentiamo più al sicuro: c’è la sensazione di pericolo e mi avvicino a qualcuno che mi possa proteggere, aiutare, confortare. Quando non ci sentiamo al sicuro emergono precise emozioni che fanno parte di questa  quotidianità; fra queste emozioni prima di tutto c’è la paura in quanto è l’emozione base di attivazione del sistema di attaccamento, la paura come percezione di pericolo.
Il caregiver deve occuparsi della regolazione affettiva del bambino (Taylor et al. 2000), ossia deve fornire risposte adeguate ai suoi stati di attivazione emotiva, soprattutto quando si attiva la paura, anche attribuendo a questi un preciso significato. Questo perché, in un primo momento, il bambino,  non è capace di comprendere e far fronte autonomamente agli stimoli emotivi, o almeno a quelli che superano la sua “finestra di tolleranza” (Siegel 1999), ovvero quelli che risultano essere eccessivamente intensi rispetto alle sue risorse e capacità.
Dall’holding (sostegno) materno, inoltre, deriva l’abilità di tenere se stessi nella propria mente, ovvero, la capacità di autoriflessione e la possibilità di concepire se stessi e gli altri come persone che hanno una mente.  Il Sé si costruisce attraverso il linguaggio e l'azione, consentendo all'individuo di autopercepirsi come un' entità dotata di rilevanza sociale e di assumere il punto di vista dell' altro come criterio per la propria condotta: “Nel corso di questo processo il bambino  diventa gradatamente un essere sociale nella sua stessa esperienza, e agisce verso se stesso in modo analogo a come agisce verso gli altri, e sviluppando questa conversazione nel proprio foro interiore, dà vita a quel campo che è chiamato mente” (Mead,1934).
Quello che l’individuo sviluppa e si porta dentro è una mappa di come vede e percepisce se stesso, gli altri e le sue relazioni. Secondo le parole stesse di Bowlby, “Ogni individuo costruisce modelli  operativi del mondo e di se stesso in esso, con l’aiuto dei quali percepisce gli avvenimenti, prevede il futuro e costruisce i suoi programmi. Nel modello operativo del mondo che  ognuno si costruisce, una caratteristica chiave è la nozione che abbiamo di chi siano le figure di attaccamento, di dove possano essere trovate e di come ci si può aspettare che rispondano. Similmente, nel modello operativo di se stessi che ognuno di noi si costruisce, una caratteristica chiave è la nostra nozione di quanto accettabili o inaccettabili noi siamo agli occhi delle nostre figure di attaccamento” (Bowlby, 1973). 

Dott.ssa Stefania Alfano
Psicologa-Psicoterapeuta

giovedì 7 agosto 2014

Famiglie psicosomatiche

La  psicosomatica nasce dalla consapevolezza che la mente e il corpo sono strettamente collegati l'una all'altro, e che il mondo emozionale e affettivo influenzi quello fisico.
Quando si affronta il problema delle componenti psicologiche di un disturbo psicosomatico, ci si pone in una prospettiva che mira ad ampliare le capacità di comprensione del disturbo, allargandone la gamma dei significati. Il disturbo somatico non è soltanto l’indice dell’anomalo funzionamento di un organo, aspetto che non va mai dimenticato e sottovalutato, ma diventa anche espressione di influenze psicologiche ed emozionali che rimandano “al di là” dell’organo malato, diventa, soprattutto, manifestazione o “simbolo” di qualcosa che non è riducibile all’apparato che non funziona ma che deve essere esplorato e compreso.
Il corpo è la prima manifestazione del Sé; è la prima realtà soggettiva del Sé, affettivo-senso-motoria. Il Sé si costruisce attraverso la relazione di attaccamento, ma quando questi legami di attaccamento non compiono la loro funzione organizzatrice e regolatrice, il bambino si sente smarrito, vive delle angosce destrutturanti e sregolatrici, e senza nessuna possibilità di sperimentare conforto, compromettendo, in tal modo, l’organizzazione del Sè. Queste identificazioni primarie modellano l’architettura corporea del Sé, esse continuano ad abitare il corpo proprio dell’adulto e a modellare i suoi comportamenti durante tutta la vita.
Questo Sé, dunque, nasce e si sviluppa all’interno di un sistema familiare.
Il contributo più importante dato dalle teorie sistemiche alla psicosomatica è venuto da Salvador Minuchin, un pediatra e psichiatra argentino che ha lavorato negli Stati Uniti e in Israele diventando il maggior esponente dell’indirizzo strutturale della terapia familiare. Minuchin, attraverso i suoi studi, sviluppò un proprio modello di interpretazione dei disturbi psicosomatici basato sull’analisi della struttura familiare  (Minuchin, Rosman e Baker, 1978). Secondo questo modello, fattori stressanti possono favorire l’insorgenza di tale disturbo e una volta che esso è comparso, tende a essere mantenuto all’interno di una organizzazione familiare disfunzionale.
L’aspetto interessante di questo modello è che esso non trascura le componenti mediche e biologiche della malattia, ma le integra in una visione più complessa nella quale assume un’importanza centrale la relazione della persona con disturbo psicosomatico e con l'intero sistema familiare. Per Minuchin, non è tanto il sintomo o la malattia ad essere specifici, ma il modo in cui è organizzata la famiglia.
Minuchin individuò delle caratteristiche strutturali tipiche delle famiglie psicosomatiche. Ha notato che: i componenti della famiglia hanno la tendenza ad interessarsi eccessivamente, sono troppo coinvolti, intrusivi ed invadenti, capita spesso, ad esempio, che uno parli al posto dell’altro (invischiamento); inoltre, in queste famiglie, ogni segnale di malessere o di malattia, genera un alto grado di tensione che spinge la famiglia ad assumere un atteggiamento di eccessiva protezione verso la persona sintomatica, impedendone l’autonomia, l'individualità, e lo sviluppo di interessi esterni al gruppo (iperprotettività); il nucleo familiare è fortemente resistente ad ogni forma di cambiamento, può accadere che non appena un membro cerca di rompere questo equilibrio precario, la famiglia diventa  molto vulnerabile e cerca di ripristinare quell'equilibrio anche se precario e non funzionale (rigidità); tutto questo rende le famiglie poco tolleranti alle frustrazioni, i componenti della famiglia non tollerano nessuna forma di disaccordo, e i problemi vengono continuamente soffocati al loro nascere o  negati (incapacità di risoluzione dei conflitti).
In tali disturbi, generalizzando,  potremmo dire che quando il dolore non trova sfogo nelle lacrime, altri organi lo piangono (Mauddsley).  Le malattie somatiche sono quelle che più strettamente realizzano uno dei meccanismi difensivi più arcaici con cui si attua una espressione diretta del disagio psichico, vale a dire attraverso il corpo. In queste malattie la sofferenza, le emozioni troppo dolorose per poter essere vissute, sentite e sperimentate, trovano una via di scarico immediata nel corpo. La difficoltà a far venire alla luce le emozioni, qualsiasi esse siano, è così invalidante che il corpo diventa il solo mezzo per poter mostrare, a se stessi e agli altri, la propria sofferenza.  


Dott.ssa Stefania Alfano
Psicologa-Psicoterapeuta
Dott.ssa Anna Verbicaro
Psicologa-Psicoterapeuta

giovedì 3 luglio 2014

Paura di ...


Paura di guidare un’automobile, di prendere un aereo, paura del buio, paura di … 
Le paure possono essere infinite, per quanto infiniti possono essere gli oggetti o le situazioni che ci troviamo ad affrontare nella vita di tutti i giorni. 
La paura è un’emozione che tutti abbiamo sperimentato nelle sue varie sfaccettature, e in relazione a diversi eventi o cose. Accompagna l’uomo fin dai suoi primi giorni di vita: un neonato ha paura dei forti rumori, un bambino di 8 mesi ha paura degli estranei; un bambino di 8 anni può aver paura del buio, e così via. 
Ma cos’è la paura? La paura  rientra nel gruppo delle emozioni primarie, cioè quelle emozioni che sono presenti sin dalla nascita, come anche gioia, sorpresa, tristezza e rabbia.  Il termine paura viene utilizzato per esprimere sia un’emozione attuale che una emozione prevista nel futuro, oppure un semplice stato di preoccupazione e incertezza. 
La paura è un sistema adattivo che modula il rapporto tra l'ambiente e l'organismo favorendo la sopravvivenza di quest'ultimo; ha una funzione positiva, così come il dolore fisico, di segnalare uno stato di emergenza ed allarme, preparando la mente il corpo alla reazione. Se la paura viene estremizzata e resa eccessivamente intensa, diventa ansia, fobia o panico, perdendo, in tal modo, la sua funzione fondamentale.
Nello specifico la paura si attiva quando i sensi percepiscono uno stimolo dannoso o potenzialmente dannoso per l'organismo, insomma quando incombe una minaccia. Alla paura segue uno stato di attivazione neurofisiologica che consente all'individuo di rispondere allo stimolo iniziale con  attacco, evitamento-fuga o nella peggiore delle ipotesi con un blocco. Precisamente, si accompagna ad una attivazione del sistema nervoso autonomo parasimpatico, e si ha quindi un abbassamento della pressione del sangue e della temperatura corporea, diminuzione del battito cardiaco e della tensione muscolare, abbondante sudorazione e dilatazione della pupilla. Il risultato di tale attivazione è una sorta di paralisi, ossia l'incapacità di reagire in modo attivo con la fuga o l'attacco. Ciò accade in quelle situazioni in cui si vive la percezione soggettiva di non avere via d’uscita. Spesso, infatti, si tende a parlare della paura come di qualcosa che blocca l’individuo da qualcosa che ritiene più grande di sé, e gli impedisce di fare un salto evolutivo, facendo sperimentare all’individuo una forte sensazione di impotenza. Sono comportamenti, reazioni che appaiono come una disperata richiesta del nostro corpo e della nostra mente a ricevere sicurezza e protezione. 

Dietro ad una nostra paura, per quanto inoffensiva o incontenibile sia, si nasconde una sua ragione d’essere: la paura svolge una precisa funzione, che affonda le sue origini nella storia personale di ognuno di noi. Le paure ci pongono inevitabilmente dinanzi alla necessità di compire dei salti evolutivi, e di fare delle scelte, e tutto questo fa sentire l’individuo non più al sicuro.

Vincere una paura non vuol dire cancellarla ignorandola, e neppure arrendersi impotenti ad essa. Piuttosto bisogna disporsi con uno stato d’animo aperto, avvicinare e osservare la paura con meno diffidenza e più interesse e curiosità. L’accettazione è il primo passo. Questo vuol dire non solo ammettere di avere paura, ma anche cercare di comprenderla, ascoltarla, e cercare di dare un significato al messaggio che porta con sé.

Con l’aiuto di un percorso psicoterapeutico, di un sostegno psicologico, si può uscire da questa sensazione di impotenza, e si possono costruire o rinforzare quegli aspetti fragili e vulnerabili di sé; inoltre, si possono sperimentare nuove strategie, e migliorare il proprio modo di vivere e affrontare le proprie paure. In questo modo, la paura diventa un potenziale strumento di crescita e d’evoluzione per ogni individuo che intende mettersi in gioco e trasformare quel blocco o quella fuga in capacità di ascoltare i propri bisogni fin’ora bloccati dalla paura.  

Dott.ssa Stefania Alfano 
Psicologa-Psicoterapeuta







martedì 1 luglio 2014

Idratiamoci a Tavola!

Con l’arrivo del grande caldo si sa, possono arrivare anche dei piccoli disturbi o malori dovuti all’ eccessiva e repentina perdita di liquidi corporei. Tra le categorie più a rischio, insieme agli anziani, ci sono bambini e donne in gravidanza, che più di tutti necessitano di liquidi in percentuali maggiori. Il nostro corpo è fatto di acqua ed ha bisogno di tanta acqua al giorno, il segreto per vivere meglio, per dare più luminosità alla pelle, per combattere la cellulite e, perché no, per perdere qualche chiletto di troppo è proprio quello di "abbeverare" il nostro corpo. 




Il consiglio sempre valido è innanzitutto quello di bere sempre almeno un litro e mezzo d’acqua al giorno, costantemente e lungo tutto l’arco della giornata. L’acqua ci depura e più ci fa bene, più ne beviamo più eliminiamo tossine. La bevanda migliore resta l’acqua possibilmente oligominerale e con residuo fisso sino a 200 mg/l. E’ consigliabile quindi, se non vi sono controindicazioni, consumare in abbondanza questi alimenti. E’ inoltre importante sottolineare che spesso i bambini non sono in grado di esprimere il loro bisogno di sete, per cui è compito dei genitori farli bere frequentemente, soprattutto d’estate nel corso dell’intera giornata, oltre che durante e dopo il gioco e l’attività sportiva. In alternativa all'acqua è possibile consumare tè e tisane naturalmente prive di calorie. I succhi di frutta, i centrifugati di verdura e i frullati sono un concentrato di vitamine e sali minerali e hanno il vantaggio di essere anche gustosi, ma attenzione vanno bevuti subito per non perdere preziose vitamine. Apportano un discreto numero di calorie quindi fate attenzione se siete in sovrappeso. Mangiare verdura e frutta che contengono un’alta percentuale di fibre e acqua, placa lo stimolo della fame, ci sazia prima e ci aiuta ancora di più. Da oggi, idratarsi mangiando deve essere il nostro impegno. Cominciamo consumando regolarmente zuppe, passati di verdura, thé, tisane, ortaggi e frutta contenenti molta acqua. In alcuni alimenti, la percentuale d’acqua arriva anche al 90% su100 grammi. Quindi abbondiamo di contorni a base di fagiolini, peperoni, cavolfiore, sedano, cipolle, verdura a foglia larga e insalata, finocchi, ravanelli, cetrioli, zucca, pomodori, zucchine, melanzane, ecc. e per frutta scegliamo agrumi in genere, cocomero, melone, ananas. Carote, carciofi, mele, pere, susine, albicocche, uva ne contengono il 70% circa, quindi benissimo anche questi ingredienti sulla nostra tavola per idratarci mangiando. Le ricette con questi alimenti sono veramente tante, cerchiamo sempre di condire poco, cuocere al vapore o alla griglia quando possibile e spazio alla fantasia. Se siamo costanti, se non dimentichiamo di bere, ricordandoci magari di portarci dietro una bottiglietta d’acqua in borsa, la pelle ci ringrazierà e si cominceranno a vedere presto gli effetti di luminosità e anche la cellulite piano piano diminuirà. Bere molto aiuta a completare l’azione depurativa dell’alimentazione corretta.


Dott.ssa Mariacarmela Guerrera
Biologa Nutrizionista

mercoledì 25 giugno 2014

I bambini e lo sport: muoversi divertendosi

Lo sport è un elemento fondamentale per il sano sviluppo dei bambini, tanto da esser stato riconosciuto dalle Nazioni Unite come un diritto fondamentale.  Secondo l'art. 31 della Convenzione sui diritti dell'infanzia:  “Gli Stati parti riconoscono al fanciullo il diritto al riposo e al tempo libero, a dedicarsi al gioco e ad attività ricreative proprie della sua età e a partecipare liberamente alla vita culturale ed artistica [...]”
I bambini hanno un istinto naturale a muoversi, e nel praticare una giusta attività sportiva si divertono, ma per motivarli sono necessari incoraggiamento e sostegno da parte di adulti (genitori, insegnanti, allenatori) consapevoli dell’importanza dell’attività fisica. 
Nella scelta dello sport da praticare, è importante che i genitori concordino con i figli il tipo di attività fisica da svolgere e lasciare che il bambino scelga lo sport a lui più gradito, tenendo presente le sue caratteristiche strutturali, l’età ed il suo carattere. Ma accade spesso, invece, che sono i genitori a decidere per lui. 
Esistono attività sportive che possono essere intraprese fin da piccoli, anche a 4-5 anni, in quanto il bambino ha raggiunto il grado di sviluppo e coordinazione necessari per apprendere le tecniche sportive; altre attività sportive, invece, richiedono uno sviluppo fisico maggiore e devono iniziare più tardi, verso gli 8 - 11 anni.
Il tema del gioco, soprattutto dai 5 agli 8/9 anni, dovrà essere preponderante, preferendo all’agonismo la collaborazione e, soprattutto, il divertimento, che se dovesse mancare potrebbe essere motivo di abbandono e di rifiuto dell’attività sportiva. È importante sottolineare però che un bambino si avvicini allo sport quando ha raggiunto una competenza motoria che gli permetta di affrontare impegno e sforzo in maniera piacevole e divertente, per non sentirsi frustrato dagli insuccessi. L'obiettivo, in ogni caso, deve essere: muoversi divertendosi. 
Praticare regolarmente uno sport favorisce nei bambini la crescita armonica del corpo e lo sviluppo della mente e della personalità; per questo lo sport rappresenta uno strumento fondamentale che i genitori possono adoperare per favorire un armonioso sviluppo fisico ed emotivo nei loro figli. 
Il punto di forza dell'attività sportiva, è che contiene gli elementi importanti per lo sviluppo emotivo, per la cooperazione, e per lo spirito d'appartenenza del gruppo. Lo sport praticato dai bambini, funge da regolatore dell' emotività e delle energie negative in surplus, e ancora, favorisce la socializzazione e il rispetto delle regole, ed è fonte di aumento di autostima attraverso l’esecuzione di esercizi, il superamento di prove e gare, il confronto con i propri pari età e i feedback forniti dall’insegnante. Nell’ insegnare a definire e a raggiungere obiettivi, si favorisce l’apprendimento del rapporto tra l’impegno speso e il risultato raggiunto, questo rinforza nel bambino il proprio senso di efficacia personale. Durante l'attività sportiva, il bambino si adeguerà alle regole, assimilando degli atteggiamenti fondamentali per la convivenza civile, come accettare le critiche, obbedire agli ordini e imparare a perdere.
Lo sport è un’opportunità per uscire dall’ambiente familiare protetto, permette di creare relazioni con i coetanei e con nuovi adulti di riferimento; quindi è un ottimo strumento di socializzazione. Tutti principi, questi, che sono alla base per un sano sviluppo.
L’approccio del genitore verso l’attività sportiva del figlio deve essere di sostegno e di supporto, prestando attenzione al clima emotivo. Ma soprattutto i genitori devono cercare di valorizzare le capacità e le potenzialità del figlio, e accrescerne il senso di auto-efficacia. 
Dunque lo sport non è fare solo del movimento, ma è educazione, rispetto, cultura, valori, benessere, stare insieme, accettazione dei propri limiti, valorizzazione delle proprie risorse, collaborare, mettersi alla prova, autocritica, obiettivi da raggiungere e da condividere. E' amicizia, e sana competizione. Insegna a gioire della vittoria e ad accettare l'amarezza della sconfitta, a cadere per poi rialzarsi, e soprattutto a vivere le emozioni e a saperle gestire. 

Dr.ssa Stefania Alfano
Psicologa-Psicoterapeuta

lunedì 16 giugno 2014

In Equilibrio durante la Gravidanza e l' Allattamento

Seguire un’alimentazione corretta durante il periodo della gravidanza e successivamente quello dell' allattamento costituisce un fattore di grande importanza al fine di tutelare il corretto sviluppo del futuro bambino ed una sua adeguata crescita.
Bisogna seguire una dieta equilibrata nei micro e macro nutrienti e introdurre la giusta quantità di calorie necessarie a soddisfare il bisogno energetico della mamma e del bimbo che porta in grembo.
Ciò non significa però, come si credeva un tempo, che bisogna “mangiare per due”.

L’obesità in gravidanza provoca in più dislipidemia, iperinsulinemia, disfunzioni vascolari e infiammazione cronica. Queste modificazioni danneggiano l’endotelio e contribuiscono a complicare la gravidanza. Il sovrappeso e l’obesità aumentano, infatti, il pericolo di andare incontro a diabete gestazionale ed ipertensione.
L’ideale è portare avanti la gestazione partendo da una condizione di normopeso (BMI compreso tra 20-25) laddove l’aumento di peso auspicabile sarà compreso tra 9 e 15 Kg. Nel caso in cui si partisse da una condizione di sottopeso (BMI < 18,5) è invece auspicabile aumentare di peso dai 12 fino ai 18 Kg. Infine, è bene ricordare che, nel caso in cui si fosse in sovrappeso o obese (BMI > 25), non si devono prendere durante la gravidanza più di 11 Kg.
Da queste evidenze, appare chiaro come affidarsi ad un nutrizionista di fiducia possa essere di aiuto per affrontare un periodo così delicato e importante quale la gravidanza. Un altro motivo per affidarsi ad un nutrizionista è quello relativo all’estetica della donna che come sappiamo è messa a dura prova dalla fisiologica ritenzione di liquidi e tensione dei tessuti a seguito del brusco aumento e diminuzione del peso corporeo. Smagliature e cellulite sono in agguato e appaiono più evidenti proprio quando sono troppi i kg presi durante la gravidanza, kg che tendono spesso ad essere smaltiti con grande difficoltà. Per evitare le smagliature, è necessario prendere questi kg poco alla volta e non tutti insieme; stesso discorso vale per il dimagrimento troppo rapido che porta sempre alle smagliature della pelle.

Per quanto riguarda invece il discorso relativo all’allattamento, il consiglio unanime dei nutrizionisti è da sempre quello di non fare delle diete "fai da te" durante tale periodo. Ciò che si teme, infatti, è che la donna vedendosi ingrassata cominci a fare una dieta pericolosa per lei e soprattutto inadeguata per far crescere al meglio il bambino. Dopo il parto, la maggior parte delle donne, desiderano recuperare il peso ed il tono muscolare che avevano prima della gravidanza. Allattare al seno aiuta già a perdere peso in misura di un chilo al mese circa considerando un consumo di calorie che oscilla tra 600 e 950 kcal/die per produrre 850 ml di latte al giorno.
Una corretta dieta moderatamente ipocalorica stilata dal nutrizionista non influenza la produzione di latte e consente di cominciare già durante la fase di allattamento a perdere i Kg di troppo presi durante la gravidanza, garantendo un adeguato nutrimento al nascituro.




domenica 1 giugno 2014

Cosa penso di me?


Molte persone si sentono inadeguati ad affrontare determinate situazioni,  riportando una valutazione negativa di sé e una bassa autostima. L’autostima si può definire come un’esperienza soggettiva e stabile di valutazione del proprio valore, basata sulla considerazione che si ha di sé: “Cosa penso di me?”. A seconda della percezione che ciascuno ha di sé, l'autostima può tradursi in atteggiamenti negativi (con ansia, apprensione, senso di inadeguatezza, scarsa fiducia nelle proprie capacità) o positivi (positività, apertura agli altri e alle situazioni, assertività). 
William James definisce l’autostima come il rapporto tra il Sé percepito e il suo Sé ideale: il Sé percepito equivale al concetto di sé, alla conoscenza di quelle abilità, caratteristiche e qualità che sono presenti o assenti; mentre il Sé ideale è l’immagine di quello che ci piacerebbe essere. L’ampiezza della discrepanza tra come ci vediamo e come vorremmo essere, è l’indice di quanto siamo soddisfatti di noi stessi.
Le relazioni interpersonali, la competenza di controllo sull'ambiente, il successo scolastico, l’emotività e il vissuto corporeo, sono molto importanti per lo sviluppo dell’autostima e sono le componenti che influenzano, in egual misura, la formazione dell’autostima globale.
La persona con una bassa autostima può percepirsi come un fallito, non meritevole di amore e sperimenta una lunga serie di sconfitte accompagnate, spesso, da sentimenti d’impotenza. Chi sperimenta una bassa autostima non si sente sufficientemente sicuro del proprio valore e delle proprie qualità,e capacità, evita di fare delle scelte e di conseguenza evita di agire per un eccessivo timore di sbagliare, e inoltre sperimenta maggior incertezza nel cercare una soluzione.

In pratica l’autostima, indica in che misura ci consideriamo importanti, capaci e di valore.
La formazione del proprio modo di considerarsi e definirsi, e la valutazione del proprio valore ha origine in un’età molto precoce. Nei primi anni di vita, il bambino sviluppa un’immagine di sé, in base alla percezione di una positiva o negativa relazione con le figure primarie. Questo primo scambio relazionale e la conseguente sicurezza (o insicurezza) interiore che il bambino sviluppa, sono connessi alla futura capacità di autorealizzazione. La capacità di affrontare gli eventi in momenti critici o di cambiamento, dipenderà proprio dal senso di sé che si è sviluppato in questa delicata e importantissima fase della vita. L'immagine di sé che sviluppa un individuo che ha avuto un attaccamento sicuro, è di essere una persona amabile, degna di essere amata, con buona autostima, che ha fiducia negli altri (ma non in modo indiscriminato). Sarà un individuo amabile con le persone amichevoli, difeso con chi percepisce come ostile, si prenderà cura di sé e delle persone che ama, non si affiderà alle persone che non conosce, sarà selettivo nei comportamenti empatici e nel rivelare se stesso, saprà appoggiarsi agli altri.
Mentre, bambini con modelli di attaccamento insicuro, saranno poi individui incapaci di regolare da soli i propri stati emotivi e in tal modo sperimentano un livello eccessivo di ansia, rabbia e desiderio di ricevere cure. Una bassa autostima, in genere, ha origine da precoci esperienze di rifiuto, trascuratezza, carenza affettiva, e trascuratezza emotiva.
Affermazioni espresse da persone significative, come ad esempio: “Stai sbagliando tutto”, “Se fai così non vali niente”, “Sei sempre il solito”, “Non hai ambizione”, “Mi hai deluso”, possono diventare aspetti identitari che si attivano in noi nel momento in cui dobbiamo fare delle scelte o dobbiamo affrontare una particolare situazione. La bassa autostima è come una profezia che si auto-avvera: credo che non riuscirò a fare una cosa, per cui non ci riuscirò davvero.

Quanto detto non vuol dire, però, che non possiamo modificare il nostro livello di autostima, o le nostre cognizioni negative e le emozioni legate ad esse.  
La sicurezza interiore e il senso di autostima, richiedono la capacità di integrare due bisogni: il bisogno di autorealizzazione (essere se stessi) e il bisogno di appartenere. Aumentare la propria autostima significa affermare se stessi nel coraggio di essere individui autentici.
È fondamentale, prima di tutto, diventare consapevoli di questo “critico interiore”, e poi cominciare a metterlo in discussione: "Sto davvero sbagliando tutto?", "Non valgo niente?"...   
Per una buona stima di sè, è importante riconoscere i propri diritti, ascoltare i propri bisogni, definire limiti e confini, considerare le proprie risorse, esprimere le proprie opinioni, prendersi cura di se fisicamente ed emotivamente, imparare a riconoscere le proprie qualità, stabilire degli obiettivi e raggiungerli.  Accrescere l’autostima significa fare un passo dentro di noi, ed esplorare e riconoscere quelle risorse interne che ci permetteranno di attuare il cambiamento. 


Dott.ssa Stefania Alfano
Psicologa-Psicoterapeuta